Segni come rughe, intelligibili tracce dell’esperienza e della collisione con gli ostacoli. Le lacerazioni e le contusioni dei soggetti di
Ari Marcopoulos (Amsterdam, 1957; vive a Sonoma, California) descrivono intimi episodi di frustrazione e fallimento, proiettandoli in una dimensione riflessiva globale. Nell’ombra dei cerotti o sotto le lievi tracce di colla rimaste sulla pelle degli skater e dei biker sembra muoversi il peccato di tracotanza di un superuomo urbano, che mette alla prova le proprie potenzialità, le spinge in estremo, fino ad allargarne i termini ultimi.
In agguato si cela però lo strascico di quell’eroica illusione di poter raggiungere il sole con ali di cera posticce. Lo scatto
Sho ka wah rielabora l’archetipica figura di Icaro in una contemporanea scarnificazione: le ali dischiuse, le scapole a fior di pelle e un’ingenua impazienza infantile. L’amaro sapore della sconfitta si diffonde anche nello sfondo lattiginoso di
Angel II, Sonoma: tra i lividi sulla schiena inarcata del ragazzo -forse il contraccolpo della caduta- s’indovinano eventualità tranciate, insieme a una candida richiesta di protezione. Marcopoulos mette il focus sulle conseguenze dell’azione e della sfida. Scatti differiti, che arrivano sempre dopo l’evento. In un tempo sgombro di azioni, nella quiete dell’esito.
La personale milanese cerca di scoprire l’eterogeneità del percorso artistico di Marcopoulos e di considerane tutte le tangenze, dalla prima full immersion newyorkese nella sottocultura degli anni ‘80 -i famosi ritratti di Run Dmc e Beasty Boys- alle più recenti parentesi paesaggistiche, nonché gli
shooting documentaristici e i “ritratti” della sua gang artistica e familiare. Fra le coordinate di questo lavoro composito troviamo
Socks, Sonoma, in cui Marcoloupos immortala lo sguardo androgino del figlio, tra calzini sporchi e lenzuola. E una serie d’immagini dall’andamento ricreativo e casuale, dove al sopraluogo fotografico
out and about si coniuga un perfetto tempismo per le circostanze.
Infine,
Cement-lined Bayou: una stampa su tela frutto di circa un’ora di esposizione squaderna un cielo plumbeo e ingombrante, sotto il quale le sagome dello skyline nebbioso si schiacciano nella prospettiva sgombra del terreno. Un magnifico
overnight di un paesaggio in perdita, tra il bianco e nero indiscreto e una certa sgranatura cinematografica. E un inedito sguardo architettonico sui
terrains vagues: “
La mente crea spazi negli spazi”, diceva
Andy Warhol. “
Essere ricchi credo significhi avere uno spazio solo. Un grande spazio vuoto”.
Warhol, doppiato da un’aura umbratile, torna in un ritratto del 1986, finora inedito e presentato in anteprima da Patricia Armocida. Il padre tutelare di tutta una generazione riassesta la rottura della devozione nei confronti dell’artista e dei suoi oggetti, simulacri e copie brutali. Coloro che hanno visto le idee, il sole intelligibile, tornano nell’antro per sciogliere le catene dell’apparenza.
Così i
looser testimoniano il tormento dell’irraggiungibile. E, più ancora, l’irrinunciabile e dolce miraggio di poterlo raggiungere.