Seguire i tracciati che
Giorgio Griffa (Torino, 1936) ha lasciato sulle tele del cosiddetto ciclo dei “
segni primari” (erano gli anni ‘70) equivale a osservare un elettrocardiogramma.
Un referto che intende leggere l’uomo come partecipe della natura; l’artista a completo ed esclusivo servizio dell’arte, al pari di tela, pennello e pigmenti, se è vero che lo stesso Griffa ha dichiarato: “
Preferisco diventare anonimo, fare dei segni che sono nelle mani di tutti, preferisco diventare invisibile, assumere un atteggiamento in cui la mia mano è uno strumento della pittura”. Un senso di umiltà nato dal fatto che “
quando io prendo in mano la pittura, mi trovo a fare i conti con una memoria straordinaria”; una memoria “
carica di quantità di significati e di emozioni”.
Nella ventina di opere esposte da Lorenzelli si dipana un percorso omogeneo, ricco di fascino. Dove a vincere è certamente la purezza del segno, in una pittura totalizzante come il rumore bianco, ma dalla quale emerge con raffinata potenza la capacità di governare il ritmo. È questa la parola che, come giustamente suggerito dagli interventi critici che completano un catalogo ricco di suggestioni (e che pertanto si fa perdonare i troppi refusi), determina il carattere di questa fase della produzione di un artista che si vede – e si mostra – nelle vesti sciamaniche di un medium al servizio della natura.
La ripetitività insistita dei tratti, le morbide variazioni cromatiche, l’incedere compassato del pennello sulla tela grezza: è la rappresentazione del tentativo di “settare” il proprio respiro sui tempi eterni ed eterei del mondo, in un’azione di pacificazione panica che strappa all’arte le sue proprietà mimetiche e le consegna alla figura dell’artista. Artista che, quindi, (ri)acquista il proprio status sacerdotale, riallacciando un legame con l’eterno che lo porta a esser in grado, infine, di
dipingere il divenire, come titola la personale.
Si è parlato, per i lavori di Griffa, di “pittura analitica”, “nuova pittura” o anche “pittura-pittura”; si è cercato di contestualizzare la sua esperienza nel
mare magnum dell’astrattismo, accostandola di volta in volta a questa o a quella corrente, in barba alla sua natura mai taciuta, semmai esplicitata, furiosamente figurativa.
Se non avessimo a noia le etichette, buone ormai forse solo per i surgelati, si potrebbe parlare di arte sincronica. Laddove è proprio nel perseguimento del “suonare insieme” che esce lo straordinario valore di quest’esperienza.