Spazi
bianchi, tratti neri rarefatti, un’immagine bitmap che lascia poco spazio alla
scala di grigi. Ma sarà davvero lui?
Avevamo
lasciato
Daniele Innamorato (Milano, 1969) in un tripudio di colori fluo, colati ordinatamente sulle pareti
della galleria, sulle tele, sulle sedie, in righe parallele pronte a
illuminarsi davanti alle lampade di wood, intrecci psichedelici che si incontravano
all’infinito, in un lavoro legato alla dimensione verticale dell’opera, unico
veicolo nella propagazione del colore sulla superficie, in diagrammi precisi e
rigorosi che sfidavano la linearità.
Ora,
invece, le righe si rompono, i colori scompaiono, la bidimensionalità diventa
solo apparente. Sono quadri, sì. Ma lo diventano dopo esser stati sculture,
dopo essere generati come installazioni, dopo aver vissuto nello spazio e nel
tempo, totemiche presenze nello studio, che occupano fisicamente il campo
pittorico.
Sono
frattali deterministici, generati dal caos regolato dalla natura della mano del
pittore; sono lampi di luce, ricondotti nella loro forza di non-colori dal
bianco e dal nero; s
ono tracciati di energia vitale e primitiva, segni
ancestrali dalle forme fortemente contemporanee, artificiali ramificazioni che
germogliano sulla tela, e che da essa si diramano fino ad abbracciare lo spazio
circostante. Non sconfinano più sui muri della galleria, ma si adagiano su una
sinuosa poltrona, a scomparire nel candore del pezzo d’arredamento, nella sua
forma stilizzata zoomorfa.
Non
c’è titolo, per le opere, non c’è spiegazione, come non ce n’è per i misteri
della natura e dell’uomo, sia che sulle tele si voglia scorgere una forma
vegetale, sia che la mente elabori lo skyline di una città futura, o l’effimero
bagliore elettrico di un fulmine, o il magico fondo di una tazza di caffé in
cui leggere incoscienti il proprio destino.
Svela
il suo segreto, Daniele Innamorato, e illumina la zona d’ombra fra l’opera
d’arte e la sua creazione in un video che lo ritrae al lavoro, nei suoi
pollockiani sgocciolamenti, a cui sottrae ogni possibile foga e veemenza. Lo
slancio non è nell’attitudine quanto piuttosto nella forma, in cui l’artista manipola
ciò che all’uomo non è possibile modificare, abbracciando tutto lo spettro
cromatico nei suoi estremi, diventando padrone del niente del bianco e del
tutto del nero contemporaneamente, in una corrente alternata di sensazioni
ottiche e emotive.
Come
montagne russe, colori percorrono la superficie in discese e risalite. Allo
spettatore non resta che salirci, e lasciarsi condurre, senza riuscire a
urlare.