L’opera di
Lorenzo Oggiano (Padova, 1964; vive a Sassari) è, in verità, un’operazione. Ogni frame si schiude di fronte agli occhi grazie a un continuo comparire. Un costante rifiorire di materia cellulare, catene sovrapposte di corolle bianco latte che si schiudono lucide, pronte a muoversi, sospese come tante cupole, come interi reticolati di calici e pistilli. Forme vigili concepite per accogliere, avvolgere e per testimoniare tutto, tutto il reale che si trova loro intorno.
Lo spettatore è attratto da questo simulacro artificiale esattamente come da un fiore o da una farfalla in bianco e nero. E non troppo diversamente da questi organi della natura, può instaurare un’intima relazione con i mille alveoli di Oggiano, annusandone mentalmente gli stami, accarezzandone la superficie e riconoscendone, al di là del tatto, la morbidezza. Guardare i lavori tridimensionali è un esercizio di percezione dei volumi, un’esplorazione di confini, in uno spazio dove “
l’essere regna in una sorta di paradiso terrestre della materia, fuso nella dolcezza della materia adeguata. L’essere, in un simile paradiso materiale, pare bagnarsi nel cibo, ricolmo di tutti i beni essenziali” (Gaston Bachelard).
Chi osserva è così parte di un’esperienza fisica che, passando attraverso il bulbo oculare, diventa totalizzante; determinando cioè un nuovo equilibrio dell’opera, definito dal sistema di volumi, di pesi e dalla forza di gravità inesistente, elementi che interagiscono con lo spazio indefinito e con la materia inventata secondo combinazioni sempre diverse.
Questa mostra, composta di poche stampe fotografiche in bianco e nero, offre una rievocazione delle forme di natura, stravolte perché analizzate fino al loro eccesso, fino alla loro atomizzazione, realizzata con tecniche di modellazione digitale tridimensionale. “
La mia opera”, sottolinea Oggiano, “
contribuisce a disporci a un’utile riflessione sulle relazioni che intratteniamo con il reale e, più in particolare, sul significato della vita nei termini di un processo reale e autonomo non legato ad alcuna specifica manifestazione materiale, una grammatica generativa indipendente dal (s)oggetto portatore”.
Nelle
Tecnobiologie il corpo e lo spazio sono regole scardinate. Elementi che l’uomo realmente possiede, ma solo al di qua dell’opera. Ecco perché ogni ambiente di Oggiano è una metamorfosi ritratta in stasi. L’artista, lavorando in bilico tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, crea un
fuori che deve tramutarsi in un
dentro. Guardare queste serre avvolge gli occhi in un guscio di benessere ipnotico, attraverso il quale si entra in relazione con un luogo di contemplazione. Un altrove veicolo di quella esperienza estetica che conduce alla percezione dell’esistenza attraverso i sensi.
I
quasi-objects sono figure deste che, imprigionate dall’immobilità, dall’inconsapevolezza, dall’anestesia e dall’imprevedibilità, segnano i confini al nostro quotidiano, che raramente utilizza la materia come motivo di scherno.