Sarà perché è la città del
miracolo di
De Sica, e non può quindi nascondere una
certa affinità elettiva con il genere; ma Milano, oggi, dice a chiare lettere
di stare con il realismo. E mentre Palazzo Reale archivia la retrospettiva
dedicata a
Edward Hopper, in Triennale si inaugura
Roy Lichtenstein (New York, 1923-1997), in una
selezione di lavori che guardano a un canale esclusivo del processo di appropriazione
iconica dell’artista.
Bando ai Duffy Duck e tanti cari saluti alla
Girl with
ball; niente
pubblicità e zero
ballons – fatta eccezione per le ironiche parodie firmate
Ugo
Mulas – e largo
quindi alla dimenticata parentesi
pre e alla lunga complessa e profonda stagione
post-comics. A ribadire, qualora ce ne fosse
il bisogno, che il concetto di lettura e assimilazione delle immagini, in
Liechtenstein, ha girato a trecentosessanta gradi; che il suo pasto visuale non
è stato merenda frugale in un
fast-food, ma pranzo pantagruelico alla tavola di chef come
Picasso e
Dalí, il Ferran Adrià dell’arte
contemporanea.
La mostra di Milano restituisce il fenomeno Liechtenstein
alla sua complessità; l’evidenza della prova dei fatti racconta come il
bidimensionale, il rifiuto del chiaroscuro, lo shock
cromatico e formale non sono figli
della cultura pop,
semmai suoi genitori.
Liechtenstein ha generato un linguaggio di
sintesi: l’eccezionalità della sua esperienza sta proprio qui, nel riuscito
livellamento del modo di trattare ispirazioni alte e basse, nel
meltin’ pot di riferimenti incrociati, freschi
e ammiccanti come spot televisivi. Freschi, già, persino freddi: improntati
sulla denuncia di quella che lo stesso Liechtenstein chiamava “
emozione
convenzionale”.
Per cui il distacco formale, l’illusione della serialità meccanica diventa una
presa di distanza dall’opera stessa, il rinnegamento della partecipazione
sensuale dell’artista alla fase creativa.
Ecco allora spuntare, in piena
bagarre astratta e gestuale, tra le
lacrime di
Pollock e gli schiaffi di
Rothko, il primitivismo espressionista di
Washington Crossing
the Delaware,
in cui il nostro si misura con la
smitizzazione dell’epica romantica di
Leutze. Ed eccolo ancora, a partire
dagli anni di Kennedy, riflettere con profondità sugli anni ’30, quelli della
sua infanzia e quindi della sua alfabetizzazione visuale; trascinando avanti e
indietro la barra temporale verso Cubismo, Surrealismo, Metafisica. Realismo,
su tutto.
Ed ecco allora il legame con
Hopper, tanto sottile che non vogliamo
nemmeno pensare possa essere casuale la convergenza espositiva degli ultimi
mesi. Perché, a leggere un suo paesaggio urbano, la didascalia più calzante
potrebbe proprio essere la dichiarazione di un Liechtenstein ’68, che
assicurava il suo tentativo di “
mostrare il valore mitologico, dunque il
classicismo, dell’hot-dog”
.Alzi la mano chi preferisce l’
Halleluja di Leonard Cohen a quella di Jeff
Buckley; chi la
Too drunk to fuck dei Dead Kennedys a quella dei Nouvelle Vague. Qui non
siamo al cinema, dove i film non sono (quasi) mai all’altezza dei libri da cui
sono tratti. Le interpretazioni di Liechtenstein raccolte a Milano sono un gran
bel disco di cover.
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http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=30801&IDCategoria=1dal 25 gennaio al 30 maggio 2010.....
Roy Lichtenstein - Meditations on Art
a cura di Gianni Mercurio
Triennale.....
Il sito segnalato http://www.alphaomegaart.it
risulta, secondo Google,carico di virus ed è inacessibile.
regolatevi in merito
saluti
Valente