Quel che c’è nasce da sotto, dal fondo. Nulla si crea se prima non lo si è distrutto e lasciato precipitare. Questi non sono adagi, non sono arcani, ma fenomeni. Movimenti oscillatori che, sfregandosi e negandosi a vicenda, provocano tensione. Pulsazioni che rilasciano qualcosa di vivo, di molto simile al mistero. Al segreto del ritorno spontaneo. Qualcosa vicino al racconto di ogni non-detto. Al niente che spiega le parole. E molte volte, il materiale pittorico interpreta questa dimensione di presenzassenza smettendo d’essere solo un appoggio, un supporto, un’intenzione. Spesso, quindi, la tela diventa ricettacolo di gesti, parole e pennelli chiusi in una specie di discorso che, se non codificato, rischia di suonare muto.
Nella pittura di Tania Pistone (Sicilia, 1969) queste fasciature di scrittura e cancellazione si affastellano le une sulle altre, senza cannibalizzarsi, giacendo assieme. L’effetto, il risultato finale del ricorsivo, continuo, sedimentare, è una griglia pittorica che si alterna sgargiante poco al di sopra di un linguaggio. Uno strato di appunti presi, trascritti, incollati e infine resinati sulla tela. Quel che rimane, imperturbabile, è il segno vivido delle eterne spatolate e aggiustate di colore. Sbavature intenzionali che graffiano e portano in rilievo il supporto, infine, inciso, disturbato.
L’utilizzo di materiali sperimentali, invece, restituisce all’aria una composizione lucida e allineata. Uno steccato di smalti e acrilici ogni volta cangianti. L’artista siciliana, infatti, non solo si destreggia rapida, quasi senza pensare tra colori caldi e colori glaciali, ma passa anche dalla lavorazione del silicone, a quella della carta, al decoro del cuoio, con la certezza certosina della riuscita. In questo modo, pensieri scritti, simboli religiosi e pennellate pastose, rimangono comunque ben avviluppate assieme. Senza creare grumi saccenti, o manierismi senza pretese.
Comunque guardando ai pochi, essenziali, lavori esposti in galleria, è difficile fare una stima dell’intero sistema pittorico che l’artista architetta da anni. Si può solo pensare ad un gioco di rimandi criptici, o ad un semplice esercizio di citazione astrattista. Ma se si guarda a fondo, esaminando con maggiore attenzione il percorso fatto e portato avanti nell’esercizio estetico, si riesce a scavare fino all’osso, al primo strato, all’origine del ritmo compositivo. Davanti ad ogni dipinto, infatti, è bene scivolare in direzione del gesto negato e poi ritratto del pennello. È meglio passare veloci, oltre la poesia visiva dei versi misterici, imbalsamati tra riflessi lucidi e disegni esoterici. E forse, è bene, anche, lasciarsi abbagliare e attirare dai segreti. Da quei tanto-per-dire che sembrano sepolti, finiti e nascosti sotto veli incandescenti. Né quaderni d’appunti, né elaborate prove colore.
ginevra bria
mostra visitata il 7 giugno 2007
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