Abbas Kiarostami (Teheran, 1940) è un artista totale: cineasta, poeta, scrittore, pittore, video artista, fotografo. Un giorno -erano gli albori della rivoluzione khomeinista- acquistò per pochi soldi una macchina fotografica e prese a ritrarre le campagne iraniane ammantate di neve, sigillando un mistero metafisico in paesaggi astratti di suoni, fluttuanti nel limbo fra vita e morte. Quanto fa temere la morte è la paura di perdere la natura, il desiderio di accompagnarsi a lei contemplando il cielo, la terra, l’inverno.
Gran parte delle fotografie raffigura unicamente alberi, solitari o disposti in filari su campi innevati. Raramente compare un altro elemento, e non importa che questa sia una scelta estetica o concettuale. E invero nemmeno importa che i boschi coperti di neve appartengano a un luogo preciso. Essi perdono la loro determinazione geografica in quanto sublimati in un una dimensione aliena, astratta. Si dice, infatti, che detti paesaggi siano quasi astratti. E lo sono, a patto che si prelevi tale termine dalla storia dell’arte e lo si usi in un’accezione più “naturale”: togliere da. Le fotografie di Kiarostami non raccontano nulla e lasciano a chi guarda la libertà di immaginare una storia o di pensare a qualcosa. Sono meditazioni,
haiku in forma figurale, piccole poesie da guardare in sequenza.
“
La neve è una poesia. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante”, scrive Maxence Fermine. E cos’altro fare se non imparare a guardare il tempo che scorre, quando, varcata una tenda oscura, ci si pone di fronte alla videoinstallazione
A Summer Afternoon, il cui effetto è di far riandare il pensiero al protagonista del romanzo breve
Neve? Si tratta solo di una proiezione video accompagnata da un elemento sonoro che simula il vento, dove una tenda scossa dalle folate fa scorgere al di là i rami degli alberi, ma il suo potere d’attivazione delle facoltà sensoriali può essere tale da proiettare il soggetto in una sorta di
ex-stasi, un uscir fuori da sé, un astrarre sé e divenire,
à la Schopenhauer, puro soggetto conoscente.
Ma è lecito credere che l’intenzione di Kiarostami, che fa seriamente fotografie ormai da 25 anni, sia ancora più elevata, perché semplice e paralizzante come un verso di Ungaretti. Non è stato facile portare in Italia i lavori di un artista non contattabile via e-mail né via telefono, egualmente guardato con freddezza, almeno all’epoca, dai pasdaran della Rivoluzione e dagli amici dell’atlantismo.
Sono sedici fotografie, di grandi dimensioni, selezionate su quarantacinque, stampate a getto d’inchiostro su carta di cotone, immacolate nel preservare lo sguardo del fotografo e realizzate a partire dal 1978, per conservare eterni i bei momenti di cui Kiarostami è stato testimone. Nulla di importante per le nazioni e i popoli, ma attimi di limpida purezza, come i momenti di Yuko, protagonista del succitato romanzo: “
‘Hai trovato la tua strada?’. ‘Meglio ancora, padre. Ho trovato la neve’”.
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Bellissima recensione, raffinata e asciutta come le foto di Kiarostami.
Complimenti ancora alla penna!