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Keith Haring (Kutztown, 1958 – New York, 1990) è dedicata la mostra retrospettiva, curata da Luca Beatrice, che inaugura i nuovi spazi della Vecchiato Art Galleries, nel cuore di Milano.
Amante della cultura metropolitana, insofferente alle costrizioni cattoliche e benpensanti, estimatore di
Andy Warhol e della sua Factory, affascinato dalle calligrafie zen e maya, fanatico dei Beatles, sovversivo ed eccentrico nel look e nello stile di vita: Keith Haring si fece portavoce di quella cultura “pop” – nel senso autentico di popolare e accessibile – fondata sul linguaggio della strada, mai aliena da implicazioni politiche.
Alla New York degli anni ’80 lo stile di Haring appariva familiare e sconosciuto a un tempo; alla sua street art l’uomo comune guardava con la stessa dimestichezza con cui quotidianamente s’imbatteva nelle immagini e nelle scritte graffite sulla metropolitana, e vi rintracciava lo stesso background che poteva respirare nella musica che risuonava per le strade della Grande Mela.
Tuttavia, in immagini così
low affiorava una cifra innovativa, qualcosa che non s’era mai visto prima nell’arte,
ossia una fusione d’ingredienti così ben miscelati da rendersi quasi irriconoscibili e da decifrarsi alla stregua dei criptici geroglifici egizi. Ecco dunque fondersi e confondersi una vastissima gamma di fonti, che vanno dai graffiti alle calligrafie cinesi e giapponesi, dal fumetto alla musica, dai grandi maestri (
Dubuffet e Art Brut,
Tobey,
Pollock,
Klee) alla cultura hip hop.
Innovativo Haring si è rivelato persino nella produzione dell’opera: anche nelle enormi dimensioni, l’artista – memore della lezione pollockiana – stende il supporto sul pavimento e, senza l’ausilio di schizzi preparatori, dà avvio al suo disegno
all-over con una rapidità esecutiva spiazzante.
Le opere esposte a Milano ben rappresentano l’universo visuale di Haring: multicolore, dalle tinte sgargianti, primitivo e simbolico. I lavori selezionati confermano la versatilità del lavoro dell’artista statunitense, il quale ebbe l’intuizione di usare i più svariati supporti – acrilico, smalto, cartone, polistirolo, acciaio, alluminio, legno – popolandoli sempre con un immaginario ironico e giocoso che, dietro i toni fiabeschi degli omini stilizzati, cela messaggi corrosivi.
Sfilano allora maschere di cartone (
Mask, 1988), a ricordare idoli primitivi; la suggestiva scultura
King and Queen, quasi un lontano ricordo delle statue totemiche di
Henry Moore;
Untitled (Burning Skull) e
Untitled (Medusa Head), che ancora strizzano l’occhio all’estetica ancestrale. Più prossimi alla Pop Art e al fumetto sono il divertente
Untitled (Happy Face), con il viso di bambina dipinto su due ante, il fumettistico volto a forma di cuore (
Untitled, 1984) e la folta serie di omini, declinata in numerose combinazioni e realizzata su supporti diversificati.
Curiose le parole del critico Jerry Saltz, che meritano una citazione conclusiva: “
Se non fosse stato artista, avrebbe fondato un gruppo rock”.