Vinili, plastiche, manichini, maschere, elmi, guidoni e sostegni metallici affilati. Sono gli elementi che
Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974; vive a Berlino) ha scelto per dare un nuovo, ultimo titolo alla sua mostra,
First Person Plural.
Prima persona plurale è un’espressione tratta dal romanzo omonimo di Cameron West. Una storia nella quale il protagonista ripercorre la propria vita fino al momento in cui è stata interrotta bruscamente. Dopo aver impostato la sua esistenza di manager, con tanto di successi, matrimonio e famiglia, un giorno, senza che nessuno se lo possa aspettare, il personaggio comincia a far emergere, da dentro di sé, diverse personalità. In lui, attraverso comportamenti bizzarri, cominciano a convivere uomini adulti, cattivi e non, bambini capricciosi oppure molto buoni, e anche donne dominatrici.
Tuttofuoco prende spunto dall’avvicendarsi di persone e personalità per arrivare a dar forma all’individuo unico; è totalmente disinteressato a rappresentare il racconto dal punto di vista scientifico e medico. L’artista milanese vorrebbe, al contrario, indagare le forme come risposte a logiche di gruppo. Confini che possono agire, di riflesso, anche all’interno di un unico individuo, contagiando e falsando il suo rapporto soggettivo con la realtà.
Le forme, i volumi e le proporzioni di questo percorso permangono nel volto e nella maschera. In questa personale, il timbro intimista e lirico di Tuttofuoco supera il confine simbolico tra l’io e il mondo, non arrivando a comunicare il senso della propria indagine. Ogni opera, connessa a quella vicina, a prima vista è come se formasse uno scudo protettivo insensibile, un aculeo innocuo che cerca di mettere in relazione il mondo con un corpo umano privo della propria anatomia. Svuotato e, forse, malinteso.
Nonostante questa piccola svista, le opere in mostra rivelano una fattura artigianale e un’attenzione materica forte, a testimonianza di un approccio alla scultura più diretto e fisico da parte di Tuttofuoco, che esclude quasi totalmente la lavorazione industriale dalle opere in mostra, mettendo in risalto le trasparenze sofisticate di plastiche, resine e composti vinilici.
Questo nuovo orizzonte formale, per Tuttofuoco, non è di recente invenzione. La sua, in studio Guenzani, è dunque un’operazione di minimalismo intellettuale, un processo che riunisce, all’interno di un numero ristretto di sculture, pochi scenari mentali. Immagini di un palcoscenico dal vago retrogusto pirandelliano, che mettono in scena solo alcune delle potenti
personalità dell’artista milanese.
Quel che si vede, dunque, cerca di lasciare nella mente del visitatore la rappresentazione di un ibrido umano, un paesaggio in miniatura che si spera riesca a ricostruire la realtà attraverso opere che rendano maggiormente accessibile (e non ancora più criptico) il passaggio tra l’universo delle idee e la dimensione (psichedelica e sconclusionata) dell’uomo.
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Ma che pretenziosità intellettuale e, a vedere dalle foto, che brutto allestimento..tutto fumo e niente arrosto
Ma possibile che tutti i "giovani artisti" scelgano come titolo una citazione di un romanzo-libro? Questo citazionismo intellettuale e banale ha stancato anche i muri delle gallerie. Mi sembra di vedere l'ennesima declinazione delle formalizzazioni di dinamiche di gruppo alla trevisani. Nè concettualmente ,nè formalmente c'è il tentativo di uscire dalla prevedibilità del "già visto" e del superfluo.
Judging from the jpegs, this look like a beautiful show, Tuttofuoco finally found his code.
Good job fella.
F
in bocca al lupo!
La citazione giusta era "Ammazza che zozzeria" (A. Sordi)
la mostra l'ho vista, pensavo peggio, ma brutta lo è stata davvero