È singolare che, allorché si trattò di recuperare alla parola scritta la capacità di espressione sintetica dell’emozione, la sofisticata cultura verbale che abbiamo elaborato nei secoli non sia stata in grado di produrre niente di meglio di una concisa rappresentazione iconica del gesto e dell’espressione corrispondente: le cosiddette emoticon. Singolare perché dimostra che, in una fase in cui il corpo è decisamente svalutato rispetto alle sue estensioni, la forma di comunicazione più sintetica ed efficace rimane ancora legata a questo medium limitato e obsoleto, e al suo rozzo linguaggio fatto di carezze e saluti come di un dito medio o di un “ti faccio il culo”.
Parlare di emoticon di fronte alle opere di Gianfranco Milanesi non deve sembrare pretestuoso: e non solo perché la sua ultima serie di lavori, intitolata appunto Gesti e presentata negli spazi -arrossiti per dare giusto risalto a tanto candore- della fabioparisartgallery, sa tradurre con una pari capacità di sintesi la potenza espressiva del gesto. Ma perché lungo tutto il suo percorso Milanesi non ha fatto altro che produrre delle “icone emozionali”, piccoli quadri che sintetizzano in poche linee e macchie nere di colore la forza emotiva di un abbraccio, di un interno borghese o di uno spazio industriale, ma anche di oggetti isolati, insignificanti come il cornetto e il ghiacciolo di nessuno ti sente (2003) o il cestino nell’angolo di nessuno ti cerca (2002 – 2003).
Certo, se il lavoro di Milanesi rivela la stessa capacità di sintesi del linguaggio stereotipato dei segni e delle icone, va detto che egli non ne adotta banalmente gli esiti. Piuttosto, ripete il percorso che ha portato alla loro elaborazione. Un percorso che non procede per concentrazione, come il saggio orientale che disegna granchi tutta la vita per dipingere poi, con un solo tratto, il granchio perfetto; né per semplificazione, traducendo un sorriso con un semicerchio all’insù; ma, in perfetta sintonia con il medium adottato, la cera, per sedimentazione.
Ogni lavoro prevede un percorso complesso, che parte dall’individuazione di un gesto, e dallo studio (mediante fotografie) della sua sintesi più efficace: perché sappia esprimere non solo quello che vuole significare, ma anche quello che inconsciamente dice di noi, del nostro carattere e della nostra corporeità. Segue il disegno, a cera nera su tavola, quindi la stesura di un velo bianco di paraffina che immerge tutto in una coltre di nebbia. Il resto è per via di levare, levigando il bianco fino a far emergere il segno nero, e la sua corte di grigi. L’immagine ne esce purificata come un pezzo di vetro levigato dalla battigia, o come un fossile rimasto incastrato tra uno strato geologico e l’altro. Che quando viene riportato alla luce mostra sempre, chissà perché, il suo lato migliore.
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perchè non fare un parallelo con alvise bittente? che ne pensate?