Nel maggio del 2008 ricevono il premio Arco della Comunidad de Madrid. Nello stesso mese, Demetrio Paparoni li inserisce, con l’installazione
Han dormido mucho tiempo en el bosque, nella sezione dedicata al
quijotismo trágico della grande mostra sull’arte spagnola a Palermo. Mentre le acquisizioni museali continuano a moltiplicarsi. Momento d’oro per
Miguel Pablo e
Manuel Pedro Rosado (San Fernando, 1971), che tornano a Milano con le idee molto chiare e la loro personale visione – ironica e amara – sul fallimento umano e sulla rivincita naturale. Un linguaggio ormai collaudato, che prende corpo ogni volta in soluzioni formali differenti.
Per la loro prima personale in Italia, i gemelli spagnoli aggiornano il lavoro dell’ultima esposizione madrilena: una meditazione sul complesso e delicato rapporto tra l’uomo e quella “
versione consumistica del mondo” a cui è stata ridotta la natura. I Rosado prendono partito per l’inversione dei rapporti di forza tra i due domini, auspicando uno sconfinamento vicendevole dell’uno nell’altro, in grado di testimoniare l’ingannevole dualità del reale.
Con una certa attitudine scenografica, l’installazione proposta in
De Profundis ricrea un’enorme radice scura in terracotta che attraversa lo spazio, fuoriuscendo dalle pareti ed entrando nelle colonne in muratura. Nel corpo della radice si distinguono sedie, libri, scarpe e monete, tutte irretite dal magnetismo della “radicazione”.
Nel suo percorso di fagocitazione, l’enorme tubero ingloba, infatti, oggetti attraverso i quali è possibile ricostruire la storia di un
assente, di un uomo passato, scomparso e insieme atemporale e simbolico. La contorsione della radice attorno agli indizi umani e agli emblemi culturali sembra proteggerli, recuperarli e allo stesso tempo soffocarli. Come nella condizione gemellare degli autori: un’interiorità condivisa e un’in-dividualità che esprime lo stato paradossale di “essere due” in un’unica apparenza.
In un angolo della galleria riposano dei rami spezzati, sempre riprodotti in terracotta, consunti da un’immaginaria corrosione salina e fermati in uno stato di apatia meditativa. In questa paludosa situazione di addormentamento, anche le radici dei Rosado sembrano residuali: occupano lo spazio ma non lo possiedono, ne sono isolate, come da un sentimento malinconico che rafforza la condizione transitoria del mortale organico. Mentre la resa realistica, estremamente aderente, delle sculture fitoformi rivela un altro livello d’indistinzione, ovvero l’impossibilità delle nostre abitudini a sciogliere l’ambiguità tra realtà e arte.
La riflessione esistenziale sull’identità si accoppia, in un gioco chiasmatico di rimandi e riflessi, con l’incedere mimetico ed entropico dei collage. L’input del lavoro è sempre un supporto fotografico su cui i Rosado intervengono con la redistribuzione di masse e proporzioni dello spazio ambientale. Il taglio del collage e il taglio fotografico confluiscono in un unico
inganno percettivo dal forte profilo pittorico, che infittisce la stratificazione e la condensazione di naturale e fittizio.