Il mezzo è il linguaggio. È quel dispositivo che rivela il già-esistente. Per parafrasare l’adagio assiomatico che da decenni sovrasta la sociologia della comunicazione. Ogni supporto, ogni tramite, qualsiasi contenitore di significato, assume nel tempo e nello spazio la forma culturale che rappresenta, codifica e include il Senso. Il senso del pensiero costretto alla parola. E spinto oltre. Dall’idea.
Il pensiero, per sua natura, slitta ed elude sistemicamente le contenzioni peculiari della sintassi e del linguaggio. Diventando uno spettro imprevedibile che aleggia al momento di ogni, seppur dettagliata, manifestazione espressiva significante.
La poetica concettuale di Joseph Kosuth (Toledo, Ohio, 1945; vive a Roma) rispecchia, rilancia e supera il potenziale espressivo sprigionato dalla famigerata langue. E dalle intrinseche formalità dell’etimo. Le tredici opere esposte a Villa Panza rappresentano un breve ma completo estratto che testimonia un passaggio. La presa di posizione dell’arte (di pensiero) nei confronti della propria identificazione speculativa (ed etimologica).
I lavori in mostra, appartenenti al periodo che va dal 1964 al 1975, sono custoditi dalle tre stanze delle antiche scuderie. Stanze che separano e danno vita ad altrettanti raggruppamenti temporali. La prima installazione che si incontra, camminando lungo il colonnato di granito, è The Tenth Investigation, Proposition 4, del 1974.
Alla parete sono appesi otto pannelli, in bianco e blu, attraversati da otto diversi pattern geometrici. Davanti a ciascuno di essi sono stati posizionati otto tavolini da studio che appoggiano un quaderno ad anelli.
All’interno di ognuno di questi, sono contenuti quattro saggi di autori che approfondiscono le origini delle otto discipline indagate. Sociologia, linguistica, antropologia, storia, politica, scienza e arte. L’intento dell’opera è quello di ricostruire un modello/modulo visivo da applicare, come un riflesso, ad un metodo di approfondimento analitico-scientifico. La semplicità concettuale della composizione restituisce la linearità dello sforzo rappresentativo, esasperando la formalità estetica dell’installazione.
Di grande condensazione concettuale, ed esattezza operativa, anche Clear Square Glass Leaning (1965). Nella seconda stanza delle scuderie, quattro lastre quadrate di cristallo, giacciono in fila, appoggiate al muro. Su ognuna è applicata una parola, una qualità referenziale del pezzo in sé (chiaro, quadrato, vetro, sporgere) che eleva il significante formale a significato speculativo. Con quest’opera Kosuth innesca un’indagine autorappresentativa che connota e concentra nella lingua la capacità e lo spessore estetico dell’opera d’arte.
Il lavoro, infatti, proietta su se stesso il nome primordiale della materia, riverberando quel potere semantico che diventa definitorio e assoluto allo stesso tempo. Ancora da visitare, nella terza stanza, Five Five’s (to Donald Judd) (1965), un esempio classico della produzione e del dibattito kosuthiano. Così, sotto le luci slavate del neon, chiude la veloce retrospettiva di Villa Panza, ripetendo nella luce, una serie di numeri che smettono di contare per cominciare a parlare di parole, parole, parole e di nuovo parole.
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