È solo l’età anagrafica di
Ian Tweedy (Hann, 1982; vive a Milano) a dimostrarne la giovinezza, poiché la sensazione che si prova dinnanzi al suo disegno minuto e dettagliato, ai supporti (pagine di libri consumate dal tempo, vecchie cartoline, ritagli di mappe) e alle iconografie “romantiche” (uomini soli circondati da una natura imponente) che utilizza, farebbero pensare piuttosto a un artista maturo, già segnato dalle esperienze della vita. È il contrasto tra le sue origini statunitensi e la nascita in luogo fittizio (una base area americana), creato ad hoc durante la Guerra Fredda e trasformato oggi in scalo turistico, che condiziona il suo rapporto con la vita e di conseguenza il suo lavoro, spingendolo sui temi della caducità e della memoria, e smascherando tutta l’ambiguità di un’identità apolide.
La mostra, prodotta in site specific, si compone di tre ambienti separati. A introdurre il visitatore alla biografia dell’artista è il grande wall painting bianco e nero che raffigura il tracciato ferroviario di Francoforte dove l’artista fu arrestato durante il suo periodo di writing: quasi una legenda con cui interpretare il suo spirito ribelle, un moderno eroismo. Accanto, un grande collage (
Plotter) alla
Rauschenberg e la serie di disegni
The Hunter and the hunted sono accostati in una composizione insieme cupa e affascinante, che oscilla tra un senso staticità (
dovuto alle pagine ingiallite e ai volti spesso coperti che scrutano e si difendono) e l’imminente scossa verso la tragedia (il soldato solo nella selva).
Per trovare la sua dimensione, Tweedy viaggia in Europa e in America, firmandosi sui muri delle città come Dephect; il graffito è evanescente come lo sono le sue radici, è un segno che incide profondamente sul territorio, un gesto che viene vissuto ma che via via viene cancellato. Troviamo la stessa dirompenza di quella pratica nell’intervento su ferro nella seconda sala, una rovina militare su cui fermare un presente, un sottotesto, per riscrivere una storia passata e dimenticata.
Il linguaggio frammentario, da montaggio cinematografico, e la rielaborazione pittorica della fotografia si sviluppano nel suo primo video,
Olympia, WA 2008, mostrato nell’ultima sala. Un silenzio minaccioso accompagna i frame iniziali, come in una lenta proiezione di diapositive sfocate; il bosco è deserto, gli uomini (l’artista e altri) si mimetizzano con il paesaggio. Un rumore violento di spari irrompe e il flusso narrativo prende corpo. Non c’è nemico apparente, solo bersagli morti, birilli che vengono torturati fino a essere ridotti in poltiglia. Ancora una volta, Tweedy si appropria di un passato comune che non gli appartiene (quello bellico) per ricostruire un suo epos attualizzato, avvalendosi di tutti gli effetti drammatici (in senso etimologico) necessari.
I volti mascherati dei disegni e quelli tesi verso l’attacco del nulla esprimono tutta la solitudine e lo spaesamento del nomade, che accumula voracemente per costruire un archivio di storie dal quale poter attingere infine la propria.