Redoublement della sede napoletana per annarumma404: gli spazi milanesi aprono sotto il segno di una napoletanità rivisitata
à la française.
Alla sua seconda mostra con la galleria,
Gabriele Di Matteo (Torre Del Greco, 1957) inscena una delle sue personali “narrazioni” impossibili intorno all’archetipo della sua ricerca: nel mezzo della sala, la scultura-installazione
1+1=0 del 1986 getta il senso sull’immaginato e paradossale incontro di
Francis Picabia e Tina Pica. Un incontro linguistico e iconico, inverato dall’idea che “
ogni combinazione fra le cose è possibile poiché ogni cosa sarà perfetta e incomunicabile”.
All’opera, nel
jeu de mots del titolo
Tina Pica-bia, la costruzione matematica dell’inesistente. L’inaccessibile perfezione delle cose fornisce dunque il luogo dell’incontro “improbabile”. L’attrice Tina Pica, di formazione teatrale pirandelliana, cresciuta nella commedie di De Filippo, approdata poi alla rivista e al grande cinema, presta a Di Matteo il suo fisico androgino e l’eco della sua voce cavernosa. Dalle scene del Teatro San Ferdinando, Tina Pica diventa uomo, donna, bambina e soldato. Poi spalla di De Sica e alter ego di Totò. Segni di un antesignano anticonformismo, dimenticato in una casa del Vomero. Di Matteo trasforma la
vis comica dell’attrice napoletana, invertendola di segno e ricontestualizzandola: pulita dagli accenti caricaturali e impellicciata come una sofisticata Peggy Lee, acquista una strana
allure borghese e la severità dei suoi lineamenti, ritratti senza clemenza, la proiettano in un divismo inflessibile.
Nella sua integrazione identitaria, invece, Francis Picabia svetta, nelle vesti di
batellier, da un imponente olio di grande formato.
Pittore e poeta, icona delle avanguardie parigine d’inizio secolo, dal proto-dada alla pittura figurativa passando per il surrealismo, Picabia entra nella rappresentazioni di Di Matteo con un corpo flaccido e una fisionomia molto vicina a quella di un autoritratto del ‘23. Mentre la situazione di perfetta malinconia e ronzante immobilità sembra riportare ai meditativi anni ’40, che l’artista spese nel Midi. E proprio questo battelliere sembrerebbe aver recato il pretesto dell’incontro improbabile, pronunciando l’elogio fanatico: “
Chère Tina, je t’adore, je t’adore, je t’adore”.
Tre piccoli nudi inscenati chiudono l’operazione evocativa nei confronti di quel Picabia che, contro l’immobilità del nudo accademico, preferiva affidarsi alle immagini erotiche di “Paris Match”.
Se la “
coesistenza pacifica e costruttiva” di due “opposti culturali”, Pica-bia, dà vita al paradosso dell’irrealtà, la tecnica perfetta e patinata ne descrive il realismo. Tentando di far penetrare l’irreale nel realismo mediante l’anacronismo della situazione, Di Matteo forza l’impossibilità dell’incontro con un nonsenso: la contrazione di due mondi diametralmente opposti. La provocazione oggettuale del dada diventa sottigliezza nelle operazioni concettuali e ibridazione dei soggetti. L’inverosimile è potersi permettere di esercitare il beneficio del dubbio.