La pittura di
Armin Boehm (Aachen, 1972) ha qualcosa di infinito. Porta in sé una chiave di lettura leopardianamente cosmica, estemporanea. Eppure, all’occorrenza, si coagula dolorosamente nella realtà, ritorna sulla Terra e acquista lo spessore di una testimonianza attuale. Questo è quanto traspare dall’iconografia dell’artista tedesco, alla sua prima personale italiana. Nove tele di grande formato che raccontano languidamente la notte del cosmo, della storia umana e della cronaca contemporanea. Senza denunce urlate, ma con il sonno del dolore che si stempera in colori scuri, nebbie liquide, pennellate malinconiche. Il registro, in fondo, è quello della tristezza.
La pittura di Boehm, in realtà, va sottoposta a un duplice livello di lettura. Ciò che ci si trova di fronte, a un primo sguardo, sono visioni notturne aeree, slavate e piangenti, come piste di atterraggio di un mondo dolente. Luci sfocate s’intravedono come da un vetro appannato, attraverso una pittura stratificata e a tratti gocciolante, con la complicità di un colore che annebbia. Sembra sempre cielo, sembra sempre cosmo distante. Eppure, è sufficiente soffermarsi un po’ più a lungo sull’immagine per scoprirvi un
pointillisme moderno, una possibilità di lettura ottica in chiave figurativa, che sposta la riflessione su un piano concreto.
Quelle di Boehm non sono esercitazioni pittoriche astratte. Le sue pennellate non sono pretesti per virtuosismi da calligrafo. Sono visioni satellitari di situazioni contemporanee reali, fortemente drammatiche. Sono riprese aeree di laboratori per le armi nucleari localizzati in Afghanistan, Iraq e Iran. Soltanto una delle tele è realmente una ripresa dell’Universo.
Ma, anche in questo caso, non c’è spazio per la serenità: la macchia galattica che si nota nel buio è una stella che muore. E ancora è la cronaca, quella italiana, a farla da padrone nella tela dedicata ai disordini del G8 di Genova, una ferita ancora aperta per il nostro Paese. Di nuovo, non sono i disordini stessi, l’iconografia a cui siamo ormai abituati, a parlare dalla tela; piuttosto, è il riposo notturno della Genova sconvolta, il teatro degli scontri diurni ripreso la sera, quando si lecca le ferite della giornata.
Tutte le opere sono pervase dall’irrimediabile malinconia di atmosfere solitarie, offuscate, disperse. Difficile cogliere un messaggio positivo fra le righe del dolore. Le luci bianche e sfocate si distillano come gocce di latte nel buio, e non riescono a brillare. I luoghi sono solo accennati, evocati, attutiti in un continuo sonno di ovatta. Forse è paura, forse rassegnazione. Ma alla cronaca raccontata da Boehm è difficile ribellarsi. Quello che le sta dietro è solo suggerito, ricordato, ammantato.
Si sa che dietro c’è il dolore, ma il dolore non si vede. Si sa che c’è stato sangue, ma il sangue non si vede. Si sa che è cronaca, ma l’arte, di nuovo, la sottopone a un processo di sublimazione che la stempera. In fondo, è solo una delle tante scelte possibili per raccontare l’oggi.