Il “Mago della terra” irradia amore per questa vita, con le sue creature dense di denuncia sociale e significati nascosti. Ma solo fino a un certo punto, visto che a spiegare ciò che non può venire subito colto vengono in aiuto le scritte tanto care all’artista. Un’iperbolica contemporaneità si affaccia sulle tele del congolese
Chéri Samba (Kinto M’Vuila, 1956). Non corpi nudi dipinti in maniera realista né moti di piazza con basi filosofiche. Samba ci narra l’umana follia scagliatasi contro la sua Africa, cuore pulsante e radice del mondo.
Le grandi tele si animano di persone, ognuna colta nella sua unicità, con la propria sfumatura di sorriso, autentica risorsa del popolo africano. Pur dipingendo la povertà e la disperazione, lo sperpero del denaro, l’abuso di potere, la solitudine, Samba non lo fa inscenando cupi drammi, bensì regalandoci “fotografie” della vita moderna africana. Con sarcasmo e dolcezza, sbatte in faccia situazioni che su un quotidiano passerebbero quasi inosservate. Una paloma blanca vola sopra
Picasso e un bambino sta al centro del globo terrestre, circondato da conflitti. I personaggi stilizzati, tinti con sgargianti acrilici, sono vicini al fumetto e vivono storie di guerre, povertà, corruzione politica, aids e prostituzione.
La leggenda narra che la sua prima esposizione a Kinshasa fu di quadri appesi ai rami di un albero in mezzo a un incrocio. E così la sua arte sbocciò come fiori dalle magiche essenze. Quest’anno l’abbiamo visto in Italia alla Biennale di Venezia, dove l’impatto coi suoi quadri sovrastava addirittura la bellezza della laguna. Ironico, sarcastico, intriso di gioia e humour, il suo stile avvolge chi lo incontra e cambia un pezzetto di vita, perché “l’uomo di Kinshasa”, come Chéri Samba si autodefinisce, dipinge per l’umanità.
Un artista non può prescindere dalla realtà, e Samba si può così etichettare come pittore pop. Con stile e tecnica diretti ci parla della dura situazione africana, attraverso enigmi simbolici, interrogativi figurativi e quelle contraddizioni che sono parte del suo continente, da sempre il più misterioso e indecifrabile. Non più continente nero, ma continente multicolor, grazie alle tonalità super-accese di Chéri, che insitilla Sole negli occhi, facendo percepire il sapore di Mama Africa. Un sapore denso e caldo di vita, in ogni sua accezione, una vita che prende coscienza della situazione disagiata, che lotta e comunque sorride, perché è vita.
Se le tele dell’uomo di Kinshasa fossero musica, suonerebbero afro-pop, sprigionando ritmi di terra e fuoco, e racconterebbero storie che divengono leggende, un po’ come accadeva per i muralisti messicani
Siqueiros e
Rivera. Arte nata per la strada, lontana dall’autoreferenzialità concettuale. Arte che parla dell’uomo all’uomo.