Che ci fanno zebre, animali sereni e colorati, tavole imbandite con fiori e leggerezza nella terra di
Paul McCarthy e
Chris Burden? Non si può dire che il panorama artistico di Los Angeles sia stato segnato da leggerezze e armonie. Anzi, il tratto comune che ha caratterizzato la metropoli californiana è spesso quello di un atto estremo, selvaggio, da ultima frontiera. Un nome, quello della città degli angeli, associato a un immaginario apocalittico e sradicato, in cui lo spazio artistico si è delineato in cosciente antitesi alle ricerche newyorkesi, attraverso il culto aggressivo di una corporeità in rivolta. Ma, sotto questa luce, pochissimi sembrano i tratti che uniscono
Laura Owens (Euclid, 1970) all’ambiente in cui lavora e alle tematiche fino a ora delineate.
Nell’esposizione da Guenzani siamo di fronte a serene composizioni: acrilici e oli che, come preziose tappezzerie, disegnano i racconti di fanciulli contemporanei. Dietro un albero spuntano sorridenti due zebre, alcuni destrieri cavalcano in una moderna grotta di Lascaux, ma soprattutto trionfi di petali e fiori che, fuoriusciti dal tubetto, vanno a stamparsi sulla tela. La città e il corpo che della metropoli californiana sono stati vessillo sembrano essere minuziosamente rimossi, fino a regredire a un’infanzia da libro delle favole. Le tele certo non sono immuni dalle recenti vicende biografiche dell’artista, che proprio nei giorni dell’inaugurazione si trovava nelle ultime fasi di una gravidanza, ma questo tratto di sognante irrealtà ha una lunga storia nella ricerca della pittrice.
Fin dai suoi primi lavori, infatti, ci si trova di fronte a montagne azzurrine sullo sfondo di alberi fioriti.
Senza volerla caricare di eccessivi significati, questa rimozione del corpo, in aperta controtendenza alla storia locale, è forse uno dei punti di forza più significativi di questo lavoro. È questo tratto che, con ogni probabilità, ha garantito l’affermarsi della sua pittura all’inizio del millennio, seguendo le esigenze di un mondo dell’arte che andava, in quegli anni, globalizzandosi e omologandosi.
Owens è una delle più acclamate pittrici americane dell’ultima generazione ed è massicciamente presente nelle principali collezioni, come quella del magnate Pinault. Il suo nome, assieme a quello di
Hernan Bas e
Karen Kilimnik, è stato associato all’etichetta “neoromantico” (si pensi alla mostra
Ideal World alla Schirn Kunsthalle di Francoforte nel 2005) e si è voluto leggere nei suoi lavori una sorta di ritorno all’ordine e alla pittura. Si può dire che l’opera di Laura Owens abbia subìto, nel bene e nel male, le dinamiche culturali di questi anni recenti e abbia rappresentato un’arte che si è rapidamente istituzionalizzata, trasformandosi nell’arco di un decennio da ricerca a veicolo privilegiato per la costruzione di un’élite globale d internazionale. Il che non è sempre sinonimo di qualità e innovazione.
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Ottima recensione!
Sarebbe questa infatti la pittura internazionale che dovrebbe essere il top in confronto alla "pitturaccia " che si fa in italia?
ehi, Guenzani , non avevi di meglio? Come si fa a passare da Mc Carthy (per quanto anche lui ripetitivo e istituzionalizzato)
a 'sta robetta caramelata?