È il celeberrimo camioncino celeste della Piaggio a dare il titolo alla prima personale che
Richard Wilson (Londra, 1953) ha inaugurato nei sobri spazi della galleria bergamasca. S’incontra immediatamente il piccolo veicolo commerciale mentre “rivoluziona” attorno a un perno, a emulazione forse di un corpo celeste, come allude la scritta
Orbita sulla merce. Moto rotatorio riproposto anche nella peculiare inquadratura piroettata su uno schermo. È proprio questa la cifra linguistica della recente produzione dello scultore britannico: uno stuzzicante susseguirsi di installazioni, video, disegni e fotografie, variamente accostati per offrire nuove proposte visive e interpretative. Non siamo dunque più di fronte alle ingegnose performance ambientali degli anni ’80 e ‘90, quale
20:50, ormai “storico” intervento fascinosamente illusionistico, divenuto pezzo permanente della collezione Saatchi. L’intento sovversivo e metamorfico dei lavori site specific, volto a coinvolgere lo spettatore in una conversazione sensoriale con l’opera, si ridimensiona ora a favore di una sollecitazione meno appariscente. Ma intellettualmente più sottile.
Una rigorosa volontà conoscitiva, quasi investigativa, guida il suo fervore creativo. È lo stesso spirito analitico, come dichiara lo stesso Wilson, che spingeva il pittore ottocentesco
George Stubbs a sezionare le carcasse dei cavalli per riuscire a dipingerli meglio. Così in
Butterfly -video realizzato nel 2003 per il Wapping Centre di Londra e ora in mostra da Fumagalli- un aereo è ripreso in un simbolico processo di restaurazione: da macigno, aggrovigliato bozzolo ferruginoso, rinasce fino a librarsi nel vuoto, simile a una farfalla. O in
5 piece kit, delicata riproduzione scultorea di una batteria musicale, e il corrispettivo gruppo di disegni, raffiguranti le sezioni in cui è scomposta.
Qual è allora la “vera” opera artistica: l’immagine che scorre nei film o la sequenza dei frame? L’oggetto o la sua riproduzione grafica? Modalità espressive diverse sviscerarono un medesimo soggetto, senza approdare però a una sintesi concettuale. Propongono piuttosto un percorso evolutivo, scandito in vari “shot” intermedi.
Una riflessione metatestuale dunque, ben esemplificata nell’esotico video
Breakneck Speed, nel quale una festosa danza gamelan di fuochi d’artificio sprizza da un razzo esploso dal vano posteriore di un anonimo caravan. E si ritrova poi racchiusa in un dipinto magicamente materializzatosi. È ancora il cambiamento, la trasformazione di una realtà data, di uno spazio preesistente a essere indagato dall’inglese. Non più attraverso clamorose operazioni spazialistiche, bensì con installazioni e opere più modeste. Ma solo nelle dimensioni. Senza mai dimenticare di instillare nel visitatore uno straniante impulso cognitivo.