Lo aveva già sottolineato Walter Benjamin nei suoi
Passages, ma ritorna in mente anche in quest’occasione: la grande città è per eccellenza il luogo simbolico del moderno. Difficile comprenderla, possederla e spiegarla adeguatamente. Nella metropoli moderna nulla è più racchiuso in uno spazio controllabile, tutto si dilata a dismisura, si espande. I confini, anche geografici, sono abbattuti e il viaggio diventa l’inclinazione contemporanea del flâneur.
È questa la disposizione che guida
Gabriele Basilico (Milano, 1944) nei suoi spostamenti: osservare le città, coglierne la forma, cercare un punto di vista privilegiato per penetrare questi moderni labirinti diventa l’obbiettivo del fotografo-flâneur. A partire dalle prime ricerche sulla periferia milanese, per arrivare alle immagini di una Beirut sventrata, protagoniste dell’ultima Biennale veneziana, Basilico ci ha abituato ai suoi scatti limpidi, dai rimandi segnatamente pittorici. Le sue opere diventano un osservatorio privilegiato sul mondo, un treno per percorrere da fermi le strade delle maggiori città europee.
Le opere in mostra, dominate dall’eleganza del bianco e nero, sono accomunate dalla costante presenza dell’acqua, colta in tutte le sue differenti vibrazioni: dalle vedute della costa in Normandia della metà degli anni ‘80, passando per il mare agitato della Sardegna, fino ad arrivare alle foto a colori di Roma e Mosca (dove la Moscova diventa una tavola piatta dalla luminosità glaciale).
Nella serie romana del 2007, il Tevere è il vero e proprio protagonista delle fotografie. Basilico ritrae la città inseguendo il fiume che l’attraversa. Il colore del cielo coperto e quello dell’acqua del fiume creano un’omogeneità cromatica che rende Roma irriconoscibile, quasi una città del nord; la curva dolce del suo fiume la distingue però in maniera marcata dalla fotografia di Amburgo, dove l’acqua del fiume Elba è rigidamente inquadrata in una severa linea retta.
Con le fotografie di Basilico dialogano, nell’immaginario di questa mostra, tre opere di
Alberto Garutti (Galbiate, Como, 1948; vive a Milano), nate anch’esse dal rapporto dell’artista con alcune città europee. La distanza che separa luoghi di alcune grandi città europee diventa segno grafico che forma sulla superficie dell’opera una trama delicata e bizzarra, un disegno astratto dal carattere labirintico. Il segno continuo è un percorso nella città compresso in un quadro, l’attraversamento pittorico di un luogo reale.
Alla base dell’opera, una frase incisa sulla cornice in alluminio indica i luoghi toccati e la loro distanza in metri. Camminiamo dalla Tate Modern alla Banca d’Inghilterra (1180 metri), oppure attraversiamo il ponte sul Bosforo (1620 metri), sempre vagando con lo spirito di moderni flâneur. Alla ricerca di un punto di vista privilegiato su questi paesaggi urbani.