Nantucket, un’isola descritta nel
Moby Dick di Melville come un luogo remoto, in cui tutti sono “
rinchiusi, sprangati, circondati e ridotti a isola dall’oceano”, è la cifra metaforica della doppia personale presentata dallo Studio Guenzani in via Melzo.
Matteo Rubbi (Seriate, Bergamo, 1980; vive a Milano e Parigi) passa da un’isola a un’altra, dopo aver lavorato a lungo con l’Isola Art Center. In galleria,
Nuvole è una stampa a colori su carta di una fotografia che immortala appunto un cielo carico di nuvole, oggetto per antonomasia della ricerca di significati nelle loro forme, esiti metereologici o semplici rimandi a profili consueti o immaginari. A terra, un giradischi fa vibrare nell’aria le note di
Disco, un fischiettìo che si perde tra melodie diverse, insistito e fastidioso.
Si tratta di lavori dall’ingenuità ricercata, in cui l’artista scava a fondo un’intuizione fino a ridurla ai minimi termini, affidandone tutto il carico semantico all’osservatore. Più interessante la ritraduzione teatrale di un suo video precedente. In
La Terra è un astro venivano fatte scoppiare le parole “Ti amo”, ora lo stesso progetto ritrova quella componente poetica che avrebbe dovuto avere in origine, secondo le intenzioni dell’artista. Una “
farsa tragica in sei parti”, a metà strada tra il ruvido sguardo di
Samuel Beckett e la tagliente emotività di
Mariangela Gualtieri, dipinge lo sciogliersi e annientarsi di un sembiante bruciato dal fuco dell’amore. “
Niente fa mondo là fuori”, recita una battuta del testo, che avrebbe potuto fare da sottotitolo alla mostra.
Le opere di
Sabina Grasso (Genova, 1975; vive a Milano) riflettono sul modo in cui si relazionano le persone tra loro e con il mondo. La serie
Sassi descrive una delle situazioni limite di questa relazione. Quella in cui tutto si fa ostile, l’ansia prende il sopravvento, il mondo crolla e la sensazione di essere completamente in balia degli eventi si fa dominante.
L’artista utilizza se stessa come filtro empatico di ciò che racconta, e in questa serie si mette in primo piano, autoritraendosi durante i propri attacchi di panico. Cambiano i luoghi, tutti dai colori carichi, a sottolinearne l’irrealtà e l’indifferenza, mentre lo sguardo smarrito e sospettoso rimane lo stesso, come la posa irrigidita del corpo, che sembra volersi sottrarre allo spazio.
L’ultima opera in mostra è il video
Dojo. Guardando diretto in camera, con un tono di voce duro e inflessibile, un “art trainer” aggressivo rinfaccia all’artista a cui si rivolge il suo doversi impegnare, interrogandosi, imparando a motivare a fondo ogni scelta, a capire il proprio pensiero prima che siano altri a doverlo interpretare. Deve essere evidente lo studio che sta dietro a un’opera, bisogna saper scrivere, diventare poeti, interpretare il ruolo dell’artista, non basta esserlo soltanto.
Un dialogo privato trasformato in monologo severo, che unisce cinico realismo a un’acritica accondiscendenza al sistema.