Leonardo acchiappatutto fra autunno e inverno, con mostre ovunque
e anche a Vigevano, roccaforte sforzesca nel Pavese. Il tutto con tratti
scontati, a volte (e per forza, dopo l’overdose a tema!), ma in qualche caso
decisamente spettacolari.
Come appunto al Castello, dove un
parterre di storici di prim’ordine,
capeggiato da Giorgio Chittolini, ha radunato un po’ di tutto per ricostruire
l’ultima e più splendida età dell’oro lombarda. Al centro, la Lomellina,
vecchia terra longobarda e patria di Ludovico il Moro, che chiamò il gran
toscano per farlo lavorare a corte e affidargli mirabili opere d’ingegneria. E
lui lo ripagò lasciandogli in eredità immortali testimonianze del suo genio.
Ma di Leonardo qui si vede ben poco. La mostra scorre via,
complice un allestimento piuttosto austero, abbastanza noiosamente tra dipinti
non indimenticabili (tranne
Ferrari e pochi altri), codici miniati, monete, qualche affresco
staccato. Ma, sorpresa, il minimalismo risulta vincente quando ci si imbatte
nei tre straordinari compianti lignei che provengono da Groppello Cairoli,
Gambolò e dalla stessa Vigevano.
Il monocolore dello sfondo esalta la drammaticità delle
figure a grandezza naturale, poste come su una quinta teatrale. E poco importa
se (tranne nel caso del gruppo di Gambolò, eseguito da
Giovanni Angelo del
Maino) non si
conosce l’autore: universali sono i gesti, universale il dolore, universale è
il pathos che ci avvolge, come se quel corpo disteso e martoriato, più che
essere di Cristo, appartenesse a un amico, a un fratello, a un marito, a un
padre. Che è poi il segreto dell’arte sacra dopo la rivoluzione francescana:
rendere Gesù talmente vicino da poter essere toccato con mano, fino a
identificarsi con esso.
Si giunge così alla piena, e meritoria, rivalutazione
della scultura lignea pavese e lomellina che, come scrive Mariolina Olivari a
catalogo, “
hanno avuto in questi anni un pieno riscatto dall’ombra che le ha
avvolte per lunghissimi decenni (o forse dovrei dire secoli)”.
L’altra vera cifra della mostra (più per storici, però) è
lo scelto – una quindicina di pezzi – corpus documentario esposto e proveniente
dell’archivio storico comunale e dall’archivio storico dell’ospedale di
Vigevano: dal “perdono” accordato da Francesco Sforza (6 giugno 1449) ai vigevanesi
per aver tentato il golpe all’annuncio della morte di Gian Galeazzo e
conseguente nomina del Moro a nuovo duca di Milano, agli elenchi di benefattori
dei tanti ospedali ed enti assistenziali fondati proprio in questo periodo,
sino agli statuti medievali del comune.
Testimonianze vive e palpitanti dei protagonisti, tra luci
e ombre, di quest’epopea per la Lombardia irripetibile.