“
Il gap tra esistenza fisica, rappresentazione e contesto”. Così
Deville Cohen (Tel Aviv, 1977; vive a Berlino e New York) presenta la sua prima personale italiana alla Nowhere Gallery di Milano.
È una mostra in bilico, quella dell’artista israeliano, che ama autodefinirsi “
scultore”, nonostante la tecnica scultorea classica sia ben lontana dalle sue opere. In bilico, a partire dal nome,
Acrophobia, ovvero la paura dei luoghi elevati; in bilico, per lo strambo allestimento delle sue installazioni, fatte di città fotocopiate e di scale a pioli, che racchiudono video e fotografie, che nascondono oggetti, che inglobano la realtà in un mondo cartaceo e fittizio.
Sagome bidimensionali di montagne e automobili di carta si trasformano in uno skyline artificiale una volta messe addosso a persone che indossano bianche scarpe dai tacchi alti; impossibile distinguerne il sesso e l’età: il niveo accessorio è l’unico elemento di catalizzazione dell’attenzione sulla figura umana e ne veicola il sex appeal, a prescindere dal genere.
L’immagine cartacea di una fotocopiatrice investe e schiaccia un uomo adagiato su un materasso nel video
The Wall, proiettato all’interno dell’installazione site specific che occupa tutta la sala: lenzuola di cellulosa recano l’impressione di grattacieli newyorkesi, bidimensionali, arrampicati su scale a pioli che diventano rampe, ponteggi, che creano equilibri impossibili, precari, da vertigine, da autentica acrofobia. Quinte instabili da scenografia espressionista anni ’30, che incorniciano un video che ritrae la contemporaneità nella sua quintessenza, fatta di apparenze fotocopiate e omologate, cloni plasmati dai media e dalla facilità di accesso alle informazioni dalla Rete.
Un senso di straniamento pervade lo spettatore, che guarda, attonito e curioso, il castello di carta, studia la struttura di scale che lo tiene in piedi, affascinato dagli oggetti reali abbandonati con finta distrazione al suo interno. Più che una vertigine, un vero e proprio smarrimento, che obbliga il visitatore a fermarsi e a riflettere, per poter decifrare, nel sovraffollamento di dati e immagini, il senso dell’opera. Uno sforzo intellettuale che persiste per tutta la visita alla mostra, e che solo allontanandosi dalla galleria trova il suo compimento: quel caos, quello stordimento, quell’alterazione dei sensi, altro non è se non il nostro stile di vita metropolitano, impossibile da cogliere nel momento del suo compimento e inquietante una volta rappresentato.
L’esorcismo, per questo turbamento? Lo offre Simone Weil: “
Sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per proprio conto, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’Universo”.