C’è chi giurerebbe soltanto di vederci corpi dalla forme semplificate, opulenti, monumentali nel loro abitare uno spazio bidimensionale che non manifesta altra ragion d’essere al di fuori di piatta superficie atta ad accogliere i richiami all’antico. A ben guardare, invece, le opere di
Marco Del Re (Roma, 1950; vive a Parigi) realizzate tra il 2005 e il 2007 manifestano un’attitudine che scivola ben oltre il semplice intento di mero citazionismo. Seppur rapite dal fascino di fonti ataviche, le “muse d’oltremare” di Del Re si mostrano colte ed educate nel loro concedersi a quel clima bucolico dell’idillio virgiliano, a quell’Arcadia pura e incontaminata; e l’aspirazione alle forme dell’arte greca si fa pretesto per dar voce a un anelito che è desiderio struggente di riconciliarsi con l’ordine universale, di plasmare la bellezza mitica, quella sopra ogni tempo e ogni luogo.
Forse l’artista avvertiva qualcosa di simile, abbandonandosi alla paradossale dichiarazione “
la pittura non è pittura”: un appello allo scarto della propria pittura rispetto ai criteri tradizionali del dipingere; ma più incisiva è qui l’idea della pittura del Novecento come stratificazione di memorie iconografiche, un’arte che attinge liberamente a un serbatoio culturale estremamente vasto.
Nonostante la pittura di Del Re sia realizzata con tecniche classiche, si configura come operazione che va ben oltre la pittura stessa -Francesco Poli, curatore della mostra, parla di meta-pittura- approdando allo status di rielaborazione fondamentalmente ironica.
L’artista si appoggia a un repertorio iconografico sinteticamente delineato: erculee bagnanti, cariatidi, ninfe, lottatori inseriti in paesaggi pseudo-arcadici con montagne, boschi e architetture classiche. Il corpo e la figura umana non sono protagonisti esclusivi delle opere di Del Re, compaiono anche nature morte e animali bizzarri, sempre in un’ottica di consapevole noncuranza verso la realtà contemporanea. Carichi di rimandi letterari sono anche i titoli, che non mancano di strizzare l’occhio a grandi maestri quali
Matisse,
Derain,
Braque,
Picabia e il
Picasso tardo-classicista.
Decisiva è la sperimentazione dell’artista nel campo della grafica, che lo condurrà alla tecnica del monotipo, grazie alla quale potrà realizzare composizioni di dimensioni importanti, formalmente e cromaticamente sintetiche, animate da una linea nitida, sinuosa, non esente da un certo decorativismo, profondamente incisa -quasi graffitata- e fissata su fogli di carta fatta a mano, memori delle lezione dei papiri antichi.
Come ebbe a dire Poli in merito al lavoro di Francesco Del Re, “
si tratta di una visione dell’arte che nasce da un’attitudine fondamentalmente malinconica, dalla coscienza dell’impossibilità di concepire, ormai, una visione pittorica ancora carica di energie avanguardistiche”.