Sono venti, fra litografie e acqueforti, a rappresentare, seppur a grandi passi, il percorso della grafica di
Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 – Bergamo, 2001), segnato da un costante, tenace attaccamento a un ideale estetico.
Un percorso, mai facilmente praticabile, verso un’assoluta semplificazione del reale, per restituire – in quella polvere neo-seuratiana che si posa sulle cose e sugli oggetti dipinti, nel mistero così filosoficamente indagato della luce – il senso pienamente avvertito e presentito dell’esistenza.
Nei tavolini ricolmi di bottiglie, barattoli e pennelli, nei drappi e nei lettini sfatti delle opere di Ferroni è la traccia di un imminente passato, di una vita vissuta eppur sospesa in una dimensione atemporale. È la dimensione della memoria, dei tempi lunghi della meditazione e di quell’eterna attesa che è il cardine costitutivo della nostra misera percezione del tempo vissuto ad affiorare nei golfi d’ombra, in quei laghi di luce cristallina, a volte rembrandtiana, a volte vermeeriana.
Quale supporto allora, meglio di un’incisione, può assecondare questo processo di sprofondamento in una continua riduzione della realtà dentro il mistero della luce, e quindi dell’ombra?
La punta del bulino e della litografia divengono il bisturi con cui andare a incidere la realtà, sin nelle viscere, a scoprirne il senso più vero, proprio in quella sospensione dei contrasti tra luce e ombra che il segno grafico mette in risalto.
L’aveva capito bene Ferroni, riuscendo a piegare le varie tecniche a farsi strumento di restituzione delle diverse temperature sentimentali. Così, se nelle litografie è una luce abbacinante a prevalere, a congelare gli oggetti nella memoria visiva, nella trama più fitta dell’acquaforte è l’ombra a inglobare nella sua tela lo spazio, divorandolo. Da qui il bisogno, ancora più forte, di richiamare alla superficie quei pochi sprazzi di luce, che emerge ora con tutta la sua carica salvifica e creatrice.
Non a caso non manca, tra i fogli in mostra, un
Omaggio a Caravaggio (1993), a chi, cioè, più di tutti della luce ha fatto uno strumento capace di risalire attraverso gli strati patetici del racconto, portandone in superficie i tremiti della sua origine.
Anche nelle fotografie rielaborate con scatti a olio di
Giovanni Sesia (Magenta, Milano, 1955) è la luce a farla da padrona. Tornano parecchi dei leitmotiv dei quadri di Ferroni: i barattoli, gli stracci abbandonati sulle sedie, gli strumenti di lavoro soprattutto. E tornano in parte l’atmosfera sospesa, quel bisogno d’indagare continuamente il tempo e la memoria.
Più inquiete, però, le composizioni di Sesia. Un’inquietudine dovuta in parte alle riprese sempre più ravvicinate e quasi claustrofobiche degli scatti; in parte al fatto stesso di operare direttamente su fotografie, immagini già cariche di senso e immerse in qualche modo nel tempo e nello spazio, modificando in continuazione la ricezione di un codice visivo.
E in quelle scritte, indecifrabili, che corrono sulla superficie, sta tutto il senso di una ricerca tormentata dall’ansia di voler vivificare immagini, quelle fotografiche, morte per definizione. Ma, avrebbe detto
Novelli, in fondo tutte le immagini nascono già morte.