Qualche tempo fa, in un’intervista rilasciata ad Alessandra Mauro, Mario Cresci (Chiavari, 1942) ricordava come la sua attività di fotografo si fosse sviluppata di contro alla predominanza dell’estetica crociana e avesse imboccato una direzione fenomenologica, con i nomi di Merleau-Ponty e Arnheim a ricoprire il ruolo di fondamento teorico. Com’è noto anche grazie a testi come La voce e il fenomeno di Jacques Derrida, la morte ossessiona strutturalmente la riflessione di Husserl. Si pensi all’ultima tappa della lunga riflessione barthesiana sulla fotografia, ossia alla Camera chiara. Baudelaire sul letto di morte, ritratto da Nadar, ma pure il cadavere di un nicaraguense, ci fanno toccare con mano, letteralmente, un corpo oramai decomposto. Che ancora ciò avvenga o avverrà quando osserviamo gli scatti digitali dei nostri cari estinti, è un fatto di cui sono personalmente convinto, al di là della presunta soluzione di continuità rispetto all’analogico.
Per tornare al Barthes del 1980, e con qualche semplificazione, la proposta di una ricezione metodicamente emotiva di certa fotografia funziona alla perfezione nel caso della serie proposta da Cresci, nei locali milanesi di Fotografia Italiana. La motivazione non è mortifera, almeno non è il primo dato che salta agli occhi e li aggredisce. Bensì è la premeditazione e la consapevolezza del lavoro del lutto. Al punto da risultare addirittura inquietante.
A cosa si riferisce il raddoppio, l’abissalità del duplice d’après in questione? Occorre tornare indietro negli anni, e ritrovare un Cresci che impugna la matita per studiare, non copiare, alcuni scatti classici: The illuminated Man (1968) di Duane Michals e ancor prima il ritratto di Marcel Duchamp (1965) realizzato da Ugo Mulas. O Man Ray, il succitato Nadar e finanche un dagherrotipo anonimo. Per
Ma il procedimento non si arresta a questo punto, bensì diviene “copia di copia”, come doveva inizialmente chiamarsi la serie. Il disegno viene riprodotto, meccanicamente, per ritrasformarsi in fotografia datata 2005-2006. E l’automazione non garantisce, ovviamente, una copia perfetta. Cambia il supporto, la dimensione, il tratto. Perché se nella prima fase Cresci –come ci ha raccontato con un certo stupore, riguardando quei disegni di vent’anni fa- sceglie tutta una tavolozza di metodi per incunearsi fra soggetto e oggetto della fotografia, con approcci talora violenti e tal altri sinuosi, nella seconda fase la matita pare cangiarsi in carboncino, e l’oleosità del lucido diviene à plat del supporto in cotone e metallo.
A farsi coinvolgere, l’operazione diviene vertiginosa. L’istinto, certo puerile, è andare a ricercarsi gli originali per risalire la china della memoria. Naturalmente grazie alle riproduzioni stampate su qualche storia della fotografia.
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