Fluxus is not dead. D’altronde non è un movimento, né una corrente, né un gruppo, bensì un “
diagramma artistico espanso”, come l’ebbe a definire
George Maciunas, che degli artisti aderenti fu un po’ vate, un po’ mentore. Disordinato, privo di regole, senza luogo né collocazione storica: travolge ogni griglia metodica, i dati acquisiti, sdoganando l’opera d’arte, il più delle volte effimera, mixed media, comportamentaristica.
Non stupisce pertanto che, con tali presupposti, a distanza di cinquant’anni circa dalla enunciazione di Fluxus ci siano ancora artisti che amino auto-inscriversi nel flusso.
Ivan Moudov (Sofia, 1975) è tra questi e ha un curriculum eccellente: Biennale di Venezia nel 2007, Biennale di Mosca nel 2005, Manifesta nel 2002. Il congegno che organizza a Milano, intitolato
Welcome, parte proprio dal primo luogo di accoglienza: la porta. Così, nella grande vetrata che introduce la galleria agli spettatori, dalla strada, viene ritagliata una seconda, monumentale porta, che affianca – con tanto di scalinata annessa – quella “istituzionale” d’ingresso.
Lo spazio interno è rigorosamente bianco, violato da poche presenze oggettuali. Una scritta a lettere corre sulla fascia superiore di due pareti ad angolo; è possibile ricavarne il numero di telefono dell’artista e ascoltare il suo messaggio. Segue un’architettura, intitolata
Back e Forward di pacchi postali, indirizzati alla galleria. Intonsi, non hanno ancora rivelato il proprio contenuto. La leggenda vuole che siano i frutti di furti di frammenti d’arte che Moudov regolarmente compie per costruire opere come
Fragments Box #2, una valigia nella quale sono stati collezionati (con tanto di mappa di opere, mostre, autori) pezzi di installazioni eseguite da colleghi.
L’idea di straniamento che esiste alla base della mostra è evidente: la fruizione dell’opera d’arte risponde a un’esigenza di allontanamento dalla realtà, pertanto non è immediata, bensì difficile, con un tempo di lettura e traduzione più o meno lungo. Sforzo ricompensato dall’ironia sfoderata dall’artista, che spesso getta il lavoro in boutade. Ne sono un esempio le sue azioni, in cui sabotaggio sembra essere la parola chiave.
Traffic Control mostra, infatti, un Moudov nei panni del vigile urbano bulgaro (la performance non è mai stata realizzata in patria) intento a regolare il traffico. Disorientare attraverso situazioni insolite, l’identificazione di autorialità diverse nella propria, la consacrazione di un atto illecito e la trasformazione dell’opera in reliquia, fino alla messa in ridicolo del concetto di collezione, con tanto di ammiccamento al sistema dell’arte è assolutamente Fluxus.
Ciò che sembra mancare a questa reinterpretazione contemporanea – e non è una nota di demerito, quanto un segno tangibile di un passaggio di tempi e testimoni – è l’irruenza puramente fisica di Fluxus, la sua passionalità. Quella violenza intellettuale che non spogliava il simbolo, ma lo distruggeva, e ancor prima con sadismo lo preparava. Non esercitava i sensi dello spettatore: con slancio d’avanguardia li inondava.