Milano come New York, Londra come Tokyo. Metropoli che non si fermano mai, prese in un vortice di affari e divertimenti, tra incontri di lavoro e happening mondani.
Steve Powers (Philadelphia, 1980; vive a New York) prende spunto da questa routine indiavolata per riformulare la scansione del ritmo quotidiano, aggiungendo un’ora al giorno e un giorno alla settimana.
8 days week e
25 hours day, più che risolvere l’assillante bisogno di un tempo ulteriore, tracciano un ritratto della frenesia della vita metropolitana, sottolineandone i difetti con ironia e sarcasmo, ma mantenendo anche un certo affetto per le sue debolezze.
Riprendendo lo stile delle insegne anni ‘50, Powers mescola immagini e parole, trasformando modi di dire in icone e accompagnandoli con alcuni personaggi dello sport e dello spettacolo, emblematici rappresentanti della fama, del crollo e della risalita. Powers è interessato soprattutto a quest’aspetto dell’uomo, il suo essere in grado di grandiosità e fallimenti, e il suo vivere costantemente in bilico tra questi due estremi.
In
8 days week, ogni giorno della settimana viene ribattezzato con un nuovo nome: lunedì diventa Mundane, l’ordinario inizio della lunga maratona settimanale, martedì è Duesday, il giorno dei debiti, Sabato è Sadderday, il giorno più triste, in cui si pagano gli eccessi del giorno prima e via di seguito, fino al ritorno dell’ordinario Mundane. Ciascun giorno esprime un tema della vita della metropoli, lo stress del lavoro e l’ossessione del denaro, i risultati ottenuti con fatica e le preghiere domenicali per la buona sorte della propria squadra.
Allo stesso modo,
25 hours day rappresenta le azioni simbolo della quotidianità, dalla prima birra serale al quarto caffè della mattina. Nei 25 pannelli seguiamo la sagoma di un omino, accompagnata da pochi oggetti e frasi che ne illustrano le azioni, talvolta giocando tra sacro e profano con citazioni bibliche per descrivere gesti banali, come quello di dividere il bucato che dà il titolo alla mostra. Su ciascun pannello compare inoltre una lettera dell’alfabeto inglese, lasciandone fuori soltanto una, la U di “you”. Powers, infatti, cerca costantemente di indurre lo spettatore a rispecchiarsi in ciò che ha di fronte, non solo riproducendo situazioni familiari, ma anche facendo sì che la sua immagine si rifletta sui pannelli d’alluminio, tutti dipinti con smalto one shot e dallo sfondo nero lucidissimo.
Powers punta l’indice su alcuni punti deboli della nostra quotidianità, ma lo fa continuando a strizzare l’occhio allo spettatore, cercandone la complicità tramite giochi di parole, vignette, personaggi noti e situazioni in grado di farlo sorridere. Non si tratta di una vera una critica sociale, ma piuttosto di una caricatura, in cui il nostro quotidiano è descritto con un’ironia che non riesce a separarsi da una profonda tenerezza.