Nei lavori di
George Condo (Concord, New Hampshire, 1957;
vive a New York) non c’è nulla da ridere. Guai a chi lo definisce comico. Guai
a chi lo ritiene grottesco, sardonico, sarcastico o più banalmente ironico.
George Condo non è semplicemente un
aggettivo. È un ossesso. Un compulsivo
visionario, un allucinato da ispirazione. Un artista di quelli che non può
fermare la materia che precede (né quel che ne consegue) le trasformazioni
estetiche che egli infligge a quel che produce.
Alla fine di questa personale, Condo si scopre possessore
posseduto, artefice succube delle figure che egli stesso crea e che, di
riflesso, lo rappresentano. Bisogna dunque premettere che le tele, le sculture
e i disegni esposti nelle sale, nei confronti della sua esperienza, sono solo
una rassegna-mancata, una breve kermesse, una piccola parte dell’intero,
infaticabile percorso dell’artista.
La prima sala è dedicata alle sculture colate. Su
altrettanti parallelepipedi scuri, prendono vita nove lavori. Facce, maschere e
semicorpi proteggono l’entrata con lo sguardo. Ciascuno dei volumi si appropria
dello spazio, spingendo chiunque capiti a tiro in un luogo dove nulla è
completo, dove le linee di confine dei corpi vengono confuse con le particelle
dell’aria e dove il tempo ha smesso di avere un’utilità. Una patina bianca,
leggera come un’antica traccia di polvere, un ritrovato alchemico, restituisce
alle superfici la crosta
usuraia del tempo.
Nella sala successiva, tredici gigantesche tele ritraggono
alcuni protagonisti della nota serie cartoonistica prodotta dalla Looney Tunes.
I lavori, che fanno riaffacciare – alla memoria e alle pareti – Willy il
Coyote, Daffy Duck, Bugs Bunny e Gatto Silvestro, si presentano come enormi
fogli di script. Finestre lasciate da un disegnatore frettoloso, uno
sgrossatore di forme, un bambino cresciuto come un adulto che traccia i
contorni dei propri idoli attraverso sfondi innocenti, attraverso segni neri e
marcati, senza far mancare innumerevoli scarabocchi e sbavature.
Al piano superiore, invece, sono esposte tredici tele
lavorate con colori acrilici, oli, carboncini e pastelli. Qui corpi rigirati su
se stessi (come panneggi), volti deformati dalla sensualità e arti umani,
rigidi per lo stupore, riprendono la scena bidimensionale dei loro supporti, animandoli.
Ben lontani dall’intento di documentare vite velate, questi lavori giocano con
lo sguardo dello spettatore. Giochi erotici, corpi aggrovigliati, donne aperte
e veneri ancestrali sono lì a
memento. Per ricordare che chi guarda, come chi crea, rimane agli
antipodi rispetto a quel che la realtà fa vedere.
Kitsch e fastidioso, Condo fa riscoprire il dono della
confusione e la malia del colore, proprio là dove, in questo primo
Start milanese, ben pochi artisti sono
stati in grado di ricreare uno scenario solido connotabile.
Visualizza commenti
uff che noia... le solite proposte pseudo ciniche