Ammirazione e scoramento, come di fronte a immensi spazi, alla forza splendida e terribile della natura. E a un mondo sconosciuto che potrà triturarci e inghiottirci, oppure regalarci un sogno e trasformarlo in realtà. Questo dovevano provare gli emigranti mentre aspettavano a Ellis Island la fine della quarantena guardando la Statua della Libertà, o i pionieri alla vista del selvaggio West. Questo proviamo visitando la mostra
America!, sterminata quanto il Nuovo Mondo e complessa e multiforme come i volti che esso racchiude e custodisce.
È difficile sintetizzare un’esposizione che, tra quadri, fotografie, cimeli e oggetti, ci sciorina davanti quattrocento opere. Tanto più che la quantità non va a discapito della qualità: le dieci sezioni sono ben ordinate e non si crea dispersione né disorientamento. Si parte rileggendo le vicende dei pittori della Hudson River School, il gruppo fondato da
Thomas Cole cui aderirono in due generazioni, tra il 1825 e il 1880,
Asher B. Durand,
Thomas Doughty,
Frederick E. Church,
Albert Bierstadt e
Thomas Moran. Basta guardare
L’isola di Mount Desert di Church o le vedute delle cascate del Niagara per capire che, in America, la pittura dal vero è l’unico mezzo per esaltare la monumentalità di una natura che sgomenta fino a fagocitare la figura umana, misera al suo cospetto.
La lezione dei romantici europei,
Turner e
Constable in testa, appresa nei viaggi sul Continente, è superata, come si vede anche nelle loro tele italiane, rovine antiche bruciate dal sole e paesaggi incontaminati. Ammaliati dall’esotico, Church,
Martin J. Heade e
William Bradford si spinsero in Ecuador, Giamaica, sulle coste del Labrador a fissare eruzioni vulcaniche, tripudi di vegetazioni tropicali e gelidi iceberg torreggianti in oceani di ghiaccio. Ben sapendo però, con Walt Whitman, che “
dopo che i mari saranno stati tutti attraversati, dopo che i grandi capitani e ingegneri avranno compiuto il loro lavoro verrà infine il poeta degno di tal nome, il vero figlio di Dio verrà cantando la sua canzone”.
Connaturato all’essenza americana è il concetto di
frontier, che coincide per i coloni della East Coast col Far West, il lontano ovest che sa di leggenda. È la terra sterminata abitata dai nativi. Che attende solo di essere conquistata: per i protestanti spinti dal nascente capitalismo, la frontiera non è una barriera invalicabile ma un confine da attraversare, come i Crociati, al grido “
Ultreja!”. L’eco del mondo del silenzio, rotto solo dallo scrosciare delle acque, dal grido dei coyote e del fremere dei bisonti al pascolo, lo riascoltiamo prima che taccia per sempre nei quadri di Bierstadt, mentre i colori delle praterie li ammiriamo sulle tele di Moran.
I volti dei nativi, i copricapi, le danze, le cacce sono invece fissati dal pennello di
Georg Catlin,
Frederic Remington,
Henry Farny,
Charles Schreyvogel. Lavori decisivi per la nascita del mito western nel cinema e nei fumetti. Lungi dall’essere oleografie del buon selvaggio che immortalano un mondo in via d’estinzione, questi lavori colgono l’essenza indigena e il trauma dello scontro con la civiltà moderna, senza tralasciarne gli aspetti più violenti e drammatici.
Chiudono la mostra le sezioni sull’impressionismo e sui ritratti da
Winslow Homer a
John S. Sargent. Tele indimenticabili -il
Notturno di Whistler, le
Insidie nella nebbia di Homer, i tanti
portrait di Sargent- che ribadiscono il debito contratto dalla pittura americana con l’arte della Vecchia Europa. E lasciano intravedere, all’alba del Novecento, rosei e vasti orizzonti.