Un artista, ma anche e soprattutto un cantautore dalla vita frastagliata. È
Daniel Johnston (Sacramento, 1961; vive in Texas), celebrità del mondo underground che, tra crisi depressive e lavori improbabili -come il venditore di popcorn-, è riuscito a diventare un’icona della musica statunitense. Persino Kurt Cobain indossava spesso una maglietta con un suo disegno di un rospo, come in occasione dell’MTV Award del 1992.
Sono questi suoi schizzi ispirati al mondo del fumetto che si trovano nella prima personale in Italia dell’artista, a cui ne seguirà subito dopo una seconda a Torino, presso il bookshop della Fondazione Sandretto.
I soggetti delle sue illustrazioni su carta sono rivisitazioni di personaggi come King Kong, Godzilla e i vari supereroi che lo ossessionano dall’età di otto anni e che dal quel periodo ritrae in modo approssimativo, impreciso, anche
brutto. Luca Beatrice, nel suo testo in catalogo, inserisce il termine Art Brut già nella seconda riga e poco dopo parla di Outsider Art, sottolineando come in entrambi i casi sia forte la componente che deriva dalla malattia, dall’emarginazione, dal disagio psicologico. L’arte come terapia è anche, di fatto, il senso dei disegni di Johnston, che rielabora in questo modo un immaginario ricco di citazioni caotiche che dal fumetto vanno alla pittura rinascimentale, rimbalzano sui testi sacri e virano verso influenze duchampiane, creando un cosmo che cerca di dare un ordine a un’immaginazione finanche troppo vivida.
Sono frequenti i crolli nervosi dell’artista, i periodi trascorsi in ospedali psichiatrici, le reazioni violente e improvvise.
Gli viene diagnosticato un disturbo bipolare che lo porta ad alternare cupi momenti di sconforto a stati di eccitazione euforica. Specularmente, il suo personaggio tipo è sempre un anti-eroe che vive fra impotenza, senso del fallimento, parossismo, crolli di speranze, espressioni patetiche di presa di coscienza di un sé senza possibilità di scampo. E, ripetiamolo, non sono certamente immagini belle da vedere per la componente fortemente infantile che lo caratterizza.
Eppure la fortuna gli ha arriso. Come scrisse il “New York Times”, dedicandogli la copertina in occasione della prima personale al Whitney Museum, Johnston è un “
Man-Child in the Promised Land”. I suoi affari vengono curati dal padre e dal fratello, lui produce arte con quello “
stupito candore infantile” che Alberto Campo gli affibbia in catalogo, definendolo “
tutto fuorché un adulto: mai lo è stato e mai lo sarà”.
Infatti, in mostra i disegni fatti al liceo e i disegni realizzati pochissimi mesi fa non mostrano segni di maturazione o cambiamento, come se l’artista vivesse in un varco temporale che gli permette di mantenere intatto il suo mondo interiore, fatto di una sofferenza espressa tramite personaggi ready made, smontati e rimontati in modo da apparire sempre più fragili. Una fragilità fanciullesca, un mondo di tenerezze distrutte.
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Quella di Johnston sembra una memoria rimasta ancorata al passato infantile, non maturata nello scorrere ed evolvere della vita. Da questa mancata crescita lo scontento e l'aggressività della sue figure, sarcastici e tristi fumetti.