L’abbiamo conosciuto e apprezzato nei pallidi ritratti di adolescenti del Nord. Nella sospensione degli sguardi e dei segni dei giovani che affollano le carceri minorili dell’ex orso sovietico, in quella serie di scatti del 2004 che sarebbe splendida appendice per
Wanted, il gustoso saggio di
Ando Gilardi dedicato allo stile e all’estetica delle foto segnaletiche.
Lo ritroviamo, oggi, a scavare nel profondo Oriente, in quelle terre di nuovi pirati – per alcuni: di colf – che sono le Filippine. Con
Davao,
Ingar Krauss (Berlino, 1965) conferma i tratti di uno stile che affascina. Conferma la capacità di giocare con l’elemento tempo, di stressare la posa fino all’estremo, fino a rendere una quasi impercettibile sensazione di movimento.
E lo fa scegliendo una strada tecnicamente pazzesca, considerati i tempi della manipolazione digitale selvaggia: ovvero trattando a olio le immagini prese in bianco e nero, inseguendo tutte le
nuance delle terre, dei verdi e dei bruni; tentando di restituire il livore dell’umidità, il peso pestilenziale dell’aria stantia della foresta, la dimensione totalmente acquatica di quelle terre e di ogni espressione di vita che le percorre attraverso una punta di pennello lanciata su fotografia.
Con il miracolo che avviene nel muscolo teso del pugile,
nel gallo sottomesso al braccio del padrone, nel volgersi del bovino invischiato nel fango: eccolo, il movimento, impercettibile eppure reale. Ecco il fremito del tendine, appena sottolineato da un’ombra; ecco il dondolio delle piume, indotte dall’intenzionalità dello sguardo; ecco l’acqua nera impastata di terra farsi gocce grasse, appese ancora un attimo alla pancia dell’animale prima di staccarsi e franare come pioggia.
La mente torna ai primi anni ’80, alla serie dei newyorkesi di periferia scattata da
Jamel Shabazz, all’occhio che compone ritratti di gente ordinaria che vive luoghi extra-ordinari. L’estremo di allora, i portoricani in posa da finti duri e i bambini afro assiepati per gioco a spingere carrelli, è oggi metabolizzato. L’asse si sposta più lontano: dal punto di vista geografico, nella mitizzazione di un Oriente dagli aromi imperialisti; dal punto di vista narrativo, nella richiesta di Krauss di esacerbare le mosse, le posizioni, gli sguardi.
In una teatralizzazione equilibrata e coinvolgente: quasi fossimo davanti a un “manierismo” della fotografia. Manierismo
à la Hauser: ovvero inteso come “perdita del centro”, risposta a un’alienazione dell’individuo che si rivela moltiplicata dalla sensibilità di artista.