Dopo la mostra dedicata a
Vittorio Sella, che ha restituito al pubblico paesaggi e scenari nei loro aspetti più duri e intransigenti, colti durante le esperienze alpine e montane dell’imprenditore piemontese, la scelta di
Luca Andreoni (Sesto San Giovanni, 1961) sembra seguire una tematica affine, però secondo un’ottica totalmente diversa. Mentre Sella rivelava un’inclinazione romantica nei confronti del paesaggio, spesso inospitale ma altrettanto affascinante per l’uomo impotente di fronte a esso, Andreoni scende a patti con la natura, decretandone il grande compromesso con il genere umano.
Paesaggi immobili, dove la luce modella i contorni e pare non trapassare mai, dove il tempo sembra fermarsi in una frazione di secondo eterna. I chiaroscuri dominano le gole scavate nella roccia come se si trattasse di foto di ricostruzione scenica. L’impatto visivo è inebriante ma non orrorifico, come il titolo della mostra,
Orridi, farebbe intendere. L’orrido fa invece riferimento a particolari formazioni rocciose erose in epoca post-glaciale da torrenti e cascate, che ne hanno determinato la superficie particolarmente liscia e lucente delle rocce, o i loro affilati profili a picco.
L’ignoto e il timore che questi luoghi generano vengono però sottomessi e addomesticati dalla fotografia di Andreoni. Il suo obiettivo scruta pazientemente ogni angolo della roccia, mettendone in evidenza venature e particolari poco visibili persino a occhio nudo.
La potenza della natura appare qui mansuetamente assopita. La macchina fotografica si addentra nei paesaggi, catturando di sguincio angoli divenuti innocui grazie al passaggio dell’uomo, che riduce ogni cosa a sua misura di grandezza. Ecco quindi che ponti, passerelle e scalette dialogano con l’ambiente circostante, esorcizzando ogni paura generata dalla vertigine degli strapiombi e dalle ripide visioni.
Il sublime romantico di un
Turner o di un
Friedrich viene a dissipare le sue nebbie di inquietudine, lasciando che una luce, forse artificiale, ne indebolisca la drammaticità. Eppure, nel piacere di una visione limpida e cristallina, di colori e tessuti cromatici fiammingheggianti per la brillantezza e la cura dei particolari, non si può non percepire ancora un sentimento di lieve disagio nell’approccio a questi luoghi. L’artista sembra domandarsi: l’uomo ha creduto di poter dominare ogni cosa piegandola alle proprie esigenze, ma cosa è sfuggito alla sua sete di controllo? La natura si lascia davvero informare mansueta dai capricci degli uomini?
Una luce escatologica, quasi divina, illumina le rocce da fonti non identificabili. Le paure che l’uomo tenta di sciogliere attraverso l’ingegneria e la tecnica continuano ad annidarsi nelle ombre, che rimangono a contrasto di insenature e corrugamenti. Queste immagini infondono una tranquillità apparente, statica, volutamente ambigua, che non permette di generare pensieri completamente positivi. Una calma di superficie, che prelude la dimensione mistica dell’ignoto.