Nel 2001, in odore di G8, è intervenuta con una performance spiazzante al Palazzo Ducale di Genova. Nel 2004, interpretare alla sua maniera la guerra in Sudan al terminal 5 del J.F.K. di New York le è valso il provvido intervento della
security. Naturale che, per la sua prima performance ufficiale in terra meneghina,
Vanessa Beecroft (Genova 1969; vive a Los Angeles) abbia attirato una curiosità spasmodica. Pruriginosa, quando non addirittura morbosa, considerato che l’artista in questione cammina da tempo (in buona compagnia: basti pensare a
Jeff Koons) in quel campo minato da qualcuno chiamato arte, mentre da altri vince l’etichetta di fenomeno mediatico, escamotage commerciale, puro e semplice regno della
boutade.
Va subito detto che la partita giocata a Milano tra
aficionados (tanti) e detrattori (almeno altrettanti) finisce, come ogni big match che si rispetti, con uno scialbo pareggino. Che però, alla fine, accontenta tutti. I critici e, a maggior ragione, gli ipercritici: il tanto atteso
VB65, un site specific elaborato su misura per il Pac, non tira come dovrebbe, con sommo gaudio di quanti – e non sono pochi – aspettano il crollo della Beecroft come un adolescente la notte di Capodanno. La tavolata di ventidue uomini di colore in doppio petto che, svogliati, spiluccano brandelli di pollo arrosto dovrebbe, nelle intenzioni espresse dagli organizzatori, indurre a riflettere sul rapporto consumi-costumi, su cosa sia da intendere oggi come equilibrata integrazione. Un ceffone in pieno volto, insomma, tanto che per l’assessore alla cultura del Comune di Milano, Massimiliano Finazzer Flory, “
il pubblico non potrà che essere emotivamente coinvolto”.
Se consideriamo l’atarassia una forma di coinvolgimento passionale, possiamo anche dargli ragione. La scintilla in realtà non scatta e serpeggia il cicaleccio fastidioso del “tutto qui?”. Troppo poco per una che, non più tardi di sei mesi fa, ha visto battere da Christie’s una sua fotografia (tirata in sei esemplari) a oltre 40mila dollari.
La sovraesposizione mediatica per il nuovo che avanza (sarebbe forse più appropriato dire: che caracolla) ha spento l’attenzione sul grosso dell’esposizione: sedici video che raccontano una selezione dell’intero percorso performativo dell’artista, dai (quasi) esordi opportunamente rimasterizzati e presentati nella nuova veste in prima mondiale (
VB16) fino all’azione inscenata all’ultima Biennale di Venezia (
VB61) e a
VB62, performance palermitana datata 2008.
Un viaggio intenso e importante, quasi totale; un invito che merita di essere accettato, a prescindere dalla superficialità di
VB65. Come merita uno sguardo senza pregiudizi la simulazione di
wunderkammer che apre l’esposizione: sedici riproduzioni fotografiche nel consueto grande formato,
frame decontestualizzati e per questo eternati in una dimensione estetica algida e feroce.
Tutti a loro modo soddisfatti, all’uscita. C’è pane per i denti d’ognuno. Ed è forse questa l’unica vera provocazione.