Fra i visiting professor che si sono susseguiti in questi anni,
Hans Haacke (Colonia, 1936; vive a New York) è forse tra quelli che meglio possono condividere didatticamente la loro esperienza con gli studenti di questa 16esima edizione del Csav, indubbiamente l’unica occasione di alto livello formativo per giovani artisti in Italia.
L’artista tedesco rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per quanto riguarda la tradizione concettuale dagli anni ‘60 in poi. Ma non solo: attraverso le sue opere, sempre intese come processi e sistemi, Haacke ha di fatto innescato e anticipato molte delle dinamiche artistiche legate alla denuncia politica e del potere esercitato dal capitale.
Sin dai suoi primi interventi, i progetti si sono orientati verso quest’idea di azione artistica come forma di lotta politica e culturale, e nel corso della sua carriera non ha risparmiato multinazionali, banche e governi, fino a magnati dell’arte come Saatchi.
Ma se questo è il quadro generale nel quale l’artista si è mosso, va osservato come le sue opere abbiano sempre scandito un preciso discorso formale, proprio dell’arte tedesca. Una certa asciuttezza di linguaggio o minimalismo che però ha prodotto esiti persino poetici nell’utilizzo delle forme e dei materiali.
Questi interventi radicali, ridotti talvolta al minimo, si sono spesso cristallizzati in segni precisi e indelebili nella storia dell’arte recente. A tal proposito è centrale il suo intervento alla Biennale del 1993, allorché invitato a rappresentare la Germania distrusse il pavimento del padiglione, trasformandolo con questo gesto traumatico ed essenziale in un’incisiva riflessione sul passato del suo Paese ed esorcizzando così le memorie più cupe di quel luogo.
Per questa prima personale italiana, Haacke ha scelto di interpretare lo spazio espositivo allestendo tre lavori, di cui uno realizzato specificamente per la mostra.
Wide White Flow del 1967 è un telo di seta bianca che occupa la navata centrale e che – tramite dei ventilatori – oscilla e si percepisce come una superficie d’acqua, dialogando peraltro con la città di Como, con il lago e con il suo passato industriale legato alla produzione della seta.
Lungo le pareti laterali e presso gli spazi dismessi dell’ex sacrestia, le fotografie mostrano le piante e i fiori cresciute spontaneamente negli ultimi dieci anni nel corso del progetto
Der Bevölkerung, tuttora in corso, dove un’aiuola posta nel parlamento tedesco è stata riempita nel tempo con la terra portata da 280 parlamentari dalle rispettive regioni di provenienza.
Le videoproiezioni che compongono
Once Upon a Time (2010) dialogano invece con ciò che rimane degli affreschi secenteschi presenti nell’abside: nelle zone in cui l’affresco si è sgretolato si insinuano le immagini prese dai telegiornali e dalle tv italiane degli ultimi giorni, oltre a strisce video dove sfilano le fluttuazioni dei titoli finanziari sotto ciò che resta di una conversazione di santi.
Pochi lavori, che hanno però la capacità di tradursi con un lessico essenziale in segni precisi, capaci di organizzare lo spazio interno creando un’opera unica e un sistema autonomo, a tratti biografico. Non come in una retrospettiva, ma come in un riassunto di un processo in corso.