Chi da tempo segue queste pagine – virtuali e non – avrà già più volte letto dell’opera di
Roger Ballen (New York, 1950; vive a Johannesburg). Non mancano, infatti, le puntuali riflessioni exibartiane sull’intensa attività espositiva che il fotografo americano in questi ultimi anni ha svolto nel Belpaese. Per limitarci alle ultime mostre, si possono citare la personale da Guido Costa, tre anni or sono, a Torino; seguita da quella, nel 2008, al Su Palatu, in terra sarda.
L’appuntamento bresciano, da Massimo Minini, ha il merito di permettere un’esplorazione della sua ultima serie di scatti,
Boarding House, a cui nell’occasione s’accompagna il catalogo di recentissima pubblicazione. Fra l’altro, si tratta di una mostra che diventa una sorta di anteprima a quella che la Triennale di Milano dedicherà a Ballen fra qualche mese. E, come se non bastasse, lascia la possibilità di uno stimolante confronto, vista la brillante idea di contrapporre agli ultimi lavori una ventina di scatti di
Shadow Chamber, opportunamente allestiti di fronte agli altri.
La fotografia di Ballen è fortemente rappresentativa di quella “
schizofrenia del mezzo” insistentemente affermata dal critico Claudio Marra. Sebbene, infatti, il suo percorso sia partito da intenti reportagistici per poi mostrare, con il passare degli anni, una sempre più evidente verve stilistica – componente, quest’ultima, ribadita ulteriormente negli scatti di
Boarding House -, è ben rilevabile come, a tutt’oggi, vi siano aspetti inestinguibili che fanno persistere a pieno titolo la sua poetica anche nell’ambito concettuale. La cosiddetta “
fotografia come readymade”, per dirla con una fortunata formula.
Ciò avviene ancora in virtù della scelta di ambienti squallidi e rappresentativi di un particolarissimo contesto – in questo caso, la location è una specie di ostello per poveri – e, quando ci sono, dei soggetti umani. Questi ultimi rimangono saturati da un’intensità psicologica quasi febbrile, dovuta essenzialmente al loro reale status di
freak. E proprio l’opera di
Diane Arbus, in effetti, può costituire per certi versi un parallelo accettabile.
Sennonché, accanto all’onestà reportagistica interviene una pluralità di significati altri – fra cui non manca, in alcuni scatti, una vena di humour – suggeriti dai rapporti fra elementi eterogenei, che la studiata regia del fotografo inserisce nelle scene. Il dramma si muove così dal particolare all’universale.
Naturalmente, ciò non toglie che tutto nelle immagini di Ballen possa esser ricondotto alla forma, al colore (inteso come chiaroscuro, essendo le fotografie in bianco e nero) e alla composizione. Anzi, vi si trova al solito grande cura per tutte queste componenti. Rendendo le immagini, sotto questo punto di vista, visionari e raffinatissimi “quadri”.