Il critico Harold Rosenberg disse che l’arte tende progressivamente verso la sua s-definizione. Griffa e Bonalumi esemplificano, sebbene con modalità differenti, proprio il processo di autodeterminazione della pittura che stava affermandosi a partire dagli anni Cinquanta. Il quadro è semplicemente un piano coperto di colori, un oggetto che ha perso del tutto la sua valenza rappresentativa, sia degli oggetti esterni ad esso, sia delle emozioni e delle condizioni psicosomatiche dell’artista al momento dell’esecuzione. Nessuna prospettiva illusoria, nessun mimetismo o processo d’improvvisazione psichica. L’arte è l’insieme degli elementi che la compongono e dei gesti dell’autore che li organizza, è processo, è l’operare dell’artista che in questo caso tende verso la monocromia o la produzione seriale. Ecco perché Bonalumi e Griffa esposti insieme al Museo della Permanente. Le loro opere ormai non raccontano più delle storie, ma si offrono allo spettatore per ciò che sono, supporto e colore.
I monocromi di Agostino Bonalumi (Vimercate –Milano- 1935) sono delle tele centinate o movimentate da chiodi o tiranti che ne estroflettono e introflettono la superficie. L’artista utilizza materiali elastici, come tessuti gommati o cirè, in modo da poterli sottoporre a forti tensioni e conferirgli così una tridimensionalità energica che richiama le sperimentazioni di Fontana e degli Spazialisti. Le sue opere inoltre sono strutturate in modo da rinnovarsi ogni volta. Cambiano infatti a seconda di come la luce si incunea tra gli avvallamenti della superficie e di come faccia brillare il colore, steso con precisa uniformità, in linea con le shaped canvas americane. In Blu (1967) due grossi pesi posti al fondo della tela producono una protuberanza agettante che fa pensare che il tessuto possa strapparsi da un momento all’altro; Bianco (1978) crea invece degli effetti ottici grazie ad una sequenza regolare di estroflessioni. Si tratta di opere in bilico tra l’organico e il geometrico, tra la percezione e l’astrazione.
I quadri di Giorgio Griffa (Torino, 1936) non sono intelaiati e suggestiona l’idea che si possano ripiegare e riporre come dei tessuti. Il supporto è leggero e svolazzante come le sequenze di segni che l’autore vi traccia: linee, virgole, strisce, dipinte con estrema precisione. Le tinte usate sono fresche e luminose alla maniera di Matisse e vengono stese senza che si mescolino tra di loro. Talvolta si sovrappongono, tuttavia, trasmettendo una sensazione di trasparenza come in Contaminazione (2005), dove si intrecciano gialli e arancioni, lilla e verdi. Quello di Griffa è un vocabolario minimalista alternato spesso a cifre che alludono all’ordine in cui le linee e i loghi sono stati dipinti sulla tela. Come in Dodicicolori (2003). Il supporto invece, privo di una mano di fondo e senza una cornice, assegna all’opera uno stato di incompiutezza che chiama in causa lo spettatore: sarà lui a completarla quando il suo occhio si poserà sulla tela, trasformandola in un quadro sempre nuovo. Una mostra coerente e ben curata, peccato l’eclatante assenza di Dioniso (1980) di Griffa e di Argento di Bonalumi, che il comunicato stampa decantava come opere di punta dell’esposizione.
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