Se
Plasticland di
Tiziano Soro (Milano, 1979), invece di una mostra, fosse un negozio di
Milano, sarebbe senz’altro quello di Fiorucci in San Babila. Ovviamente non parliamo
del celebre megastore chiuso da qualche anno, ma dell’attuale rivendita
Love
Therapy identificabile nel marchio fiabesco: i sette nani, quelli di Biancaneve. Di
Fiorucci c’è l’uso della fiaba per colorare la contemporaneità, e soprattutto
c’è lo sguardo pop per estetizzarla.
Plasticland può in prima analisi suscitare nel visitatore un impatto
emotivo rassicurante, leggero, quasi spensierato e ovattato, come le atmosfere
evocate da una fiaba: trionfa il rosa confetto, ci sono pupazzi, unicorni,
giostrine. Il secondo passo verso ogni singolo quadro però apre su un universo
simbolico stratificato, dove il gioco non è più (solo) tale.
Così, da un tripudio di arcobaleni emergono le dichiarazioni
di diniego contro la guerra: pensiamo a
Call to Army, in cui “la chiamata alle armi” è
interpretata da un pallottoliere a metà, con sullo sfondo l’immagine reiterata
di un soldato.
E non a caso, l’unica guerra ammessa è quella in assoluto più
dolce, delle torte in faccia (si veda
Cakewar).
Dura critica sociale nel quadro
Love is in the air, in cui uno sfondo azzurro
propone l’immagine ripetuta più e più volte di una Madonna che però, al posto
dell’aureola, ha una
fiche. Nell’opera, come scrive il curatore della mostra, Ivan
Quaroni, “
l’immagine in primo piano, amaramente sarcastica, raffigura
l’insegna al neon di una delle tipiche cappelle di Las Vegas, dove sono
celebrati disimpegnati fast wedding”.
A tal proposito va sottolineato che una delle figure che
si ripetono nei quadri di Soro è proprio l’insegna. La segnaletica, decisamente
pop, con la sua simbologia sintetica e appunto evocativa. Pensiamo a
No camp, opera dal gusto surreale che
associa il “divieto” a una navicella spaziale che si muove su uno sfondo di
banane. Ancora segnaletica in
Last dinner, dove il verde di un’“uscita d’emergenza”
campeggia al centro di una quadrettata tovaglia rossa, imbandita per una foca.
Ma la prima insegna è proprio
Plastic Land, costruita sui resti di una vecchia lamiera. A
comporre la scritta, le lettere rigorosamente di plastica, di quelle usate dai
bambini per imparare a scrivere il proprio nome.
In un mondo di plastica non possono che essere i
giocattoli i grandi protagonisti. E dalle opere pittoriche i toys entrano nella
realtà del percorso espositivo occupando un ruolo di primi attori:
Burro fun,
Please insert coin,
AlleluJa (ovvero un triciclo che ricorda
quello di
Shining di
Kubrik, per
l’occasione tutto rosa tempestato dall’immagine della Vergine, con a fianco un
“casco” sottovetro).
Giocattoli che diventano icone, simboli, metafore. Come
ogni fiaba, anche la mostra diventa un viaggio (si pensi a Propp) disseminato
di segnali, in cui ci si stupisce di trovare cose, facce, oggetti facilmente
riconoscibili e ricontestualizzati in un percorso straniante.