Per definire “casa”, gli anglosassoni hanno due termini a disposizione, che toccano due diversi aspetti della stessa idea:
house, ovvero lo spazio architettonico dell’alloggio, l’edificio; e
home, concetto astratto che indica tutta la sfera emotiva e relazionale che lega gli abitanti di una dimora.
Flavio Favelli (Firenze, 1967; vive a Savignano, Forlì) lavora proprio su questa dicotomia nell’intervento che lo vede protagonista, a cura di Milovan Farronato, della riappropriazione di uno spazio abitativo occupato, vissuto quotidianamente da persone estranee alla sua sfera affettiva.
Casa Vhernier prende solo il nome dall’attività del suo proprietario, Carlo Traglio, perchè l’ispirazione per l’installazione site specific affiora direttamente dai ricordi dell’artista, dalle sue vacanze nella villa inizio secolo sugli Appennini, dall’universo gozzaniano delle sue memorie adolescenziali: impossibile non pensare al poeta piemontese, alla descrizione dell’ambiente casalingo che evoca
L’amica di Nonna Speranza, mentre si cercano e si scoprono gli interventi che Favelli ha inserito nel loft, tanto da rimanere esterrefatti quando la poesia cita “
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone / e immilla nel quarto le buone cose di pessimo gusto”. I lampadari Maria Teresa, fatti di vetri sfaccettati e multicolore, oggetti ingombranti che fluttuano sospesi nella dimensione luminosa, sono infatti le prime opere ad accogliere i visitatori, prima ancora di violare l’intimità del focolare, varcando la soglia della pesante porta blindata.
Ciò che ci accoglie all’interno è un viaggio straniante, che sposta continuamente l’attenzione fra l’ambiente preesistente, connotato dai mobili e dalle opere scelte dagli abitanti della casa, e il percorso nell’esperienza dei ricordi, rintracciabili, in tanti casi, solo grazie alla piantina fornita all’ingresso. I simboli che hanno accompagnato Favelli nella villa dei suoi nonni sono modificati dall’intervento dell’artista: le bottiglie del Martini, divise e ricomposte mescolandone le etichette; le ceramiche Ginori, impilate e tagliate per creare una scultura contemporanea, sorte che tocca anche ai vasi dell’Amarena Fabbri; i pesanti tappeti, cuciti come in una coperta patchwork; la composizione con le veline che incartavano le arance.
Tutti oggetti che hanno contrassegnato gli ambienti famigliari italiani fino agli anni ‘80, periodo in cui l’artista viveva la sua infanzia e adolescenza, e che ritornano come leit-motiv nell’iconografia favelliana, in un nuovo crepuscolarismo artistico contemporaneo. E come scriveva Mario Praz: “
Questo e non altro è, nella sua ragione più profonda, la casa: una proiezione dell’io; e l’arredamento non è che una forma indiretta di culto dell’io“.