L’Occidente è a caccia di novità. Dopo l’Est Europa, i cinesi e l’arte africana, è il turno dell’Indiamania. Non solo per quanto riguarda ammennicoli e gadget, ma anche per ciò che concerne gli ultimi ritrovati dell’arte contemporanea. Il che, al di là di semplici questioni modaiole, nasconde il segreto di paesi emergenti, che stanno ammortizzando anche con la creatività le scosse di assestamento e le innumerevoli schizofrenie che caratterizzano il percorso verso il “progresso”. E se l’arte è la conferma di uno status, ma anche il motivo per ricuperare un’identità, allora un paese come l’India, a caccia degli stessi, non ne potrà fare a meno.
Il congegno espositivo studiato da Adelina von Furstenberg cerca di riassumere, con l’aiuto delle opere di quindici artisti, i sottili equilibri tra miseria e modernità, tradizione millenaria e sviluppo, convenzioni e necessità di progresso. Spazi liminali che emergono con prepotenza nell’installazione di
Reena Kallat, dove la sari indiana testimonia il desiderio sfrenato e nostalgico di rimanere ancorati ai propri modelli, ambizione tradita dalla scrittura in braille presente sulle stoffe, che esprime un senso di perdita ma di necessità, una volontà di restituire ordine al caos della quotidianità.
Una vita di tutti giorni raccontata con occhio da reportage e pochi filtri nelle fotografie di
Raghubir Singh: inquadrature spietate, oblique, in grado di tradurre allo spettatore un senso d’instabilità complesso. In
Crawford Market, l’obiettivo appare immerso nel bagno di folla e folklore che caratterizza il luogo; lo spettatore vi si ritrova catapultato, ne assaggia gli aromi, ne orecchia il ritmo. Meno evocativa e più politica è l’installazione di
Anita Dube, che testimonia lo scarto tra ansia di modernità e miseria. Feticci di un’industrializzazione sfrenata, ricoperti da tinte militari, si contrappongono ai resti organici delle sue vittime, in un connubio drammatico che rievoca immagini ben più agghiaccianti di una ruota sociale che non ammette debolezze.
Con un atteggiamento più kitsch, tuttavia analogo,
Barthi Kher riporta il discorso sulla donna nell’India contemporanea. Il bindi, il cosiddetto terzo occhio indossato dalle maritate, viene utilizzato come
dot sulle superfici di monumentali sculture rappresentanti animali, annullandone la funzione, riducendolo a segno decorativo, predicando un riscatto dalle convenzioni sociali. Un opposto amore per la tradizione emerge dal cerchio rituale di luce di
Subodh Gupta, una rassegna di relitti industriali -convergenti verso l’ossatura solida dei costumi, rappresentati dal fiore di loto- di un’ India che si rinnova.
Jitish Kallat, marito di Reena, ricostruisce in
Public Notice II uno dei discorsi di Gandhi come monito contro le guerre.
L’opera più interessante è senz’altro quella di
Avinash Veeraraghavhan, che attraverso la tecnica del collage e la raccolta di immagini eterogenee, anche di spaccati e paesaggi occidentali, ricostruisce su slide la sua
Utopia. Un’India perfetta e trasognante, dove le nevrosi della trasformazione sono assorbite, dove la presenza inglese è solo un “bel” ricordo, dove le ancestrali convenzioni sociali sono riformulate nel rispetto della tradizione, ma anche dell’essere umano. E dove al carosello di colori popolari e kitsch dell’India attuale corrisponde un’analoga serenità.