Cos’è la
bottiglità? L’atteggiamento naturale vede il mondo come un insieme di oggetti utili all’uso, sui quali far cadere quel po’ d’attenzione senza considerarli nella loro intima essenza. Bisognerebbe reimparare a vedere il mondo. Così si saprebbero vedere anche le opere d’arte. Bisognerebbe reimparare a considerare il suo apparire non come ingannevole. E nemmeno come vero.
Il fenomeno, Edmund Husserl ce l’insegna, è pienamente veritativo perché sono le cose stesse a darsi tramite gli scorci percettivi esplorati dall’osservazione soggettiva. L’essenza delle cose non è separata dal modo in cui il mondo si fa vedere. Già Maurice Merleau-Ponty coglieva nella pittura di
Cézanne l’espressione del darsi primordiale del mondo, al di là dell’impresa scientifica e dell’abitudine. Un nuovo modo di concepire il rapporto con l’essere. Intendendo per
essere non solo l’insieme degli enti, ma ciò che fa sì che gli enti siano: l’idea delle cose, intesa in un nuovo rapporto di avvolgimento – non più fronteggiamento – con l’essere. Né chiara né distinta, ma velata di tenebra, impenetrabile all’intelligenza. L’essenza, senza veli non si dà. Solo nei veli sensibili, attraverso questi simulacri, è dato vedere l’intima essenza che in essi traspare.
Se si dà un diverso rapporto con l’essere, allora cos’è l’idea della bottiglia, la
bottiglità?
Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964) fece per tutta la vita lo stesso quadro, conducendo un inesausto dialogo con l’essenza delle cose. Fu una specie di fenomenologo. Scriveva di lui Piero Bargellini sul
Frontespizio nel 1937: “
Dice essenza, e si sente che intende dire essere. Non parere, essere”. E naturalmente vi furono anche gli sfottò di altri critici.
Villa Panza ospita quaranta opere di importanti collezionisti di Morandi provenienti da raccolte storiche, raggruppate secondo progressione cronologica e generi. A partire dal 1911, con
Paesaggio, inizia quella progressiva astrazione cui andò incontro l’amato Cézanne con la sua montagna di Saint Victoire:
come il pittore francese iniziò proprio con quell’opera la ricerca della datità sensibile attraverso la poliprospettività – un tentativo di guardare il mondo che rompeva con la tradizione della pittura, preconizzando il cubismo – così Morandi intraprese la sua direzione solitaria di intensa contemplazione delle cose e astrazione del sensibile, attraverso una ricerca tributaria della semplificazione rappresentativa cézanniana, che giunse infine a lambire i territori dell’esistenzialismo.
Il compimento di questo processo di estrema generalizzazione tetragona al dominio della forma fu la
Natura morta del 1963-64. Solo negli
idoli è dato vedere la forma che in essi traspare. Registrando il senso fragile dell’essere, accostandosi in un certo senso a quel fuoco fatuo che fu la stagione del realismo esistenziale, la ricerca morandiana fu il risultato di un’intimità silente e non angosciosa con il mondo degli oggetti semplici. Eletti a protagonisti di quel
mondo della vita husserliano che l’artista forse non conobbe, ma in qualche modo sentì dentro sé.