Il contenitore Peep-Hole detta regole “fisiche” precise. E
la mostra che rompe il ghiaccio di questa nuova
venture curatoriale sembra rispettarle.
La personale di
Ahmet Ögüt (Diyarbakir, 1981; vive ad Amsterdam)
afferra infatti con polso il
concetto di project room, adottando la fisionomia complessa dello spazio
espositivo e permettendo proprio a quest’ultimo di veicolare la costruzione del
progetto.
La grande profusione di mezzi espressivi dell’artista
turco sembra il miglior strumento euristico per la comprensione dello spazio e
per l’adattamento fisico e mentale alle sue caratteristiche. Video,
installazione e disegno radicalizzano i quattro ambienti dell’esposizione in
modo eterogeneo, producendo una parcellizzazione tematica dell’allestimento,
che procede così per passaggi e sopravanzamenti.
La prima sala ospita la proiezione del video
Things we
count, di cui
amplifica in eco la tensione rarefatta. Un lungo piano-sequenza si dilata sugli
spazi aperti dell’Airplane Grave Yard-Bone Yard, un campo di raccolta dei mezzi
in disuso dell’airforce americana. Il vuoto fisico dello spazio rappresentato
si accoppia al vuoto funzionale degli aerei militari ed è solcato solo dalla
cantilenante conta che enumera – in curdo, in turco e infine in inglese – quei
“cadaveri” bellici.
La voce fuori campo s’inserisce nell’osservazione come un
elemento di disturbo, invertendo di segno una visione ambientale suggestiva e
caricandola di un potenziale riflessivo sull’ingerenza del controllo bellico e
sull’autismo delle dinamiche di potere.
L’installazione
Swinging doors invita a varcare quel fittizio
“limite igienico” tra il fruitore e l’opera, obbligando a sfondare un ostacolo
materiale e ad agire contro di esso. Due scudi antisommossa dei Carabinieri
intasano lo stretto corridoio che dà accesso alla seconda sala e il passaggio
attraverso questa inedita porta induce a mimare l’atto eversivo di sfondamento
di quei muri umani che contengono le manifestazioni pubbliche. Sembra
concretizzarsi, in un nuovo momento di visibilità, l’interesse di Öğüt per il
manifestarsi nel quotidiano della riflessione sul background conflittuale del
vivere contemporaneo.
Uno squillante giallo segnaletico accoglie il trittico
Mission
Calls, lo storyboard
di un’immaginaria azione performativa ridotta ai minimi termini: l’artista si
rappresenta mentre “promuove” un randagio intento a ispezionare dei rifiuti,
vestendolo con la pettorina da cane da soccorso. Mossi dallo stesso spirito
paradossale della serie fotografica del 2008
Mutual Issues, Inventive Acts, anche i tre disegni in mostra
vivono di un pedinamento meticoloso del quotidiano per identificarne i poli di
enfatizzazione, su cui lavorare per implementarne la surrealità.
A sancire il concetto di
trasformazione come nucleo della pratica
artistica di Ögüt, l’intervento installativo
pensato per il soppalco aperto
affacciato sulla proiezione video.
An ordinary day of a bob disposal robot si compone di due stereovisori
maneggiabili che si rivelano essere, invece che semplici misuratori
topografici, lo spioncino sul disinnesco di una bomba.