C’era una volta il catalogo di una mostra. Ora c’è la mostra del catalogo. Capita alla Fondazione Mudima, dov’è ospitata l’antologica di
Alik Cavaliere (Roma, 1926 – Milano, 1998),
pendant della pubblicazione per i tipi di Electa della monografia che Arturo Schwarz ha dedicato allo scultore.
Un lavoro rigoroso, costruito passando al setaccio gli scritti di Cavaliere e il generoso catalogo critico, e che affronta i nodi più caldi – vedi il necessario background filosofico sotteso alla maturazione dello stile – con penna agile e gradevole, quasi mossa da fini didattici. Il libro propone un percorso completo, analizzando con dovizia di esempi e particolari, e contestualizzando in modo scientifico, tutte le diverse fasi del lavoro di Cavaliere.
La mostra si pone l’obiettivo di stigmatizzare ogni passaggio proponendo opere esemplificative: partendo dai monolitici cementi policromi degli anni ’50, pezzi di pressante e urgente fisicità (neo)realista (
Ragazza di campagna, 1952), e arrivando alla stagione degli
Environment, segnata dalla realizzazione degli shakespeariani
Processi per la Biennale di Venezia del ’72.
In mezzo, l’evoluzione del linguaggio realista secondo tre gradi, definiti anche attraverso le parole dello stesso Cavaliere come figurativo prima, espressionista poi, in ultimo inventato. Un passaggio formale e linguistico che porta dal cemento al bronzo, alla maturazione di un’estetica imbevuta di echi spinoziani, dove l’uomo tende alla mediazione con la natura, verso la costruzione di un equilibrio analogo a quello che aleggia nelle pellicole di Terrence Malick; e che cede alla fascinazione dell’epica, sia mitologica sia rinascimentale.
Spazio quindi alla tragicomica serie di Gustavo B., autentico alter ego di Cavaliere, personaggio a metà strada tra un
Chaplin ultra-espressionista e un Marcovaldo anfetaminico, annichilito dall’urbanizzata e oscena civiltà del boom, destinato a trovare umanità e naturalezza solo nella morte. Proprio
Post mortem (1963), scelta a immagine simbolo dell’intera mostra, esplode di ironica potenza nella teatralità dell’abbraccio impossibile tra il protagonista e la propria
animula.
E spazio anche alle suggestioni post-sessantottine della serie di
W la libertà, con la natura in gabbia e figure a volte disarcionate dalla bicicletta, le mani protese al cielo come parodistica reinterpretazione del Paolo sulla via di Damasco; fino a giungere alla profondità di
Susi e l’albero (1969), la prima installazione di Cavaliere, dove il tema esoterico del corpo senza testa quale condizione prossima all’illuminazione (e qui torna alla memoria il Canetti di
Auto da fé) viene riproposto con visionaria vitalità.
Il percorso espositivo è tanto coerente con il volume da sembrarne una logica materializzazione, quasi un inevitabile strumento di corredo. Al punto che, a uscirne ridimensionata, è forse l’esposizione stessa, pienamente godibile solo da quanti abbiano tra le mani il volume di Schwarz. O già conoscano a fondo Cavaliere.