Quasi
una mostra didattica la nuova, quarta personale di
Grazia Toderi (Padova,
1963; vive a Milano e Torino) nelle sale di Marconi a Milano. Un evento giocato
sull’apertura degli armadi, sull’esibizione dei timidi scheletri che reggono le
imponenti installazioni immersive, da almeno dieci anni autentico monogramma
dell’artista.
Le
orbite ellittiche che siamo abituati a riconoscere, governate da luci
ipnotiche, si sciolgono ora con passo incerto, deboli segni di grafite che si
intersecano e si intrecciano un millimetro alla volta; il gesto emula
l’andamento millenario dei corpi celesti, simula l’incedere cieco dei corpi
terrestri, trafitti dallo stordimento dell’assoluto. Segni deboli, corroborati
dalla luce: luminescenze fredde, riflesse nelle sporadiche colate d’argento e
stagno fuso che Toderi concede con palpabile raffinatezza.
E
viene in mente la struttura tripartita dell’
Auto da fé di Elias
Canetti; vengono in mente i titoli che l’autore scelse per le aree narrative
del suo capolavoro.
Un mondo senza testa, il primo: in questo senso
c’è assonanza con il disordine organico delle orbite di Toderi; si concepisce
l’ammaliante profonda armonia del confuso ricorrere di immagini, fari come
stelle replicano se stessi in una costante partenogenesi. In secondo luogo:
Una
testa senza mondo, là dove, nella serie di opere
ultime, la speculazione sulla pluralità dei linguaggi si fa drammaticamente
intensa, corposa, totalizzante.
Un
mondo nella testa, infine, riconoscendo – come suggerito dall’apparato
critico che accompagna la mostra – il doppio significato dello stesso termine
orbita: il viaggio
ellittico incessante del corpo celeste, ma anche la cavità oculare. Così il
campo visivo, ricondotto all’interno di cerchi, è stretto in realtà, come per
una zoomata, nel vortice di un cranio eterno e infinito.
In
clima di anniversari galileiani, l’incrociarsi delle
Orbite rosse nell’aria
rarefatta, tra un “dentro” e un “fuori”, un “ora” e un “sempre”, rivela nuove esperienze
sensoriali: assegnando all’esperienza dell’installazione audio-video una
invadente dimensione tattile. Al pari di un
Olafur Eliasson, Grazia
Toderi dimostra un dominio dello spazio talmente radicale da risultare fino
imbarazzante, costruito su sprezzanti climax più ascensionali che ascendenti.
Rumore
bianco, immagini – in questo senso – altrettanto candide: mappe interplanetarie
del quotidiano, da leggere nella speranza di essere condotti altrove. Altrove
da sé, altrove in sé: lo spazio di Toderi si declina al plurale, magnetico e
immutabile. Raggelante.