Jürgen Drescher (Karlsruhe, 1955; vive a Berlino)
è lo specchio di quel che crea. Quando gli si parla, risulta un artista dal
carattere sorprendentemente meditativo e gentile. Ogni volta che lo si
incontra, sempre disponibile a qualsiasi spiegazione, Drescher lascia intendere
che la sua affabilità possa comunque essere forzata. Senza che, in nessun modo,
alcuna sorta d’imprecisione ne possa scalfire solidità e consistenza.
Questo dato è immancabile, a
prescindere dal fatto che il discorso si concentri sui progetti degli ultimi
anni, sulla sua completa esperienza o sulle opere che l’artista ha attorno al
momento. Anche questo secondo dato, infatti, è una costante: i lavori esposti
sembrano sempre far ritorno alle sue mani. Sculture e/o pitture paiono
(cor)rispondergli perfettamente, proprio come le parole che dice, generatrici
di limite, di bilico regolatore fra l’esterno e l’interno di Jürgen
Drescher.
Sotto la guida di questo
ragionamento non pare corretto, perché forse troppo semplice, scrivere che i
lavori esposti siano solo
presenze fatte. Quello che si vede in mostra – in tutto una decina
di lavori di medie e grosse dimensioni – infatti non sono solo spessori formali
creati per rimanere in galleria;
oggetti posti a organizzare la seconda personale di
Drescher, a pochi centimetri di distanza gli uni dagli altri. Crediamo che da
questa mostra si possano trarre molteplici, delicate prospettive per una nuova positività
della materia.
“
In questi ultimi lavori”,
accenna Drescher passeggiando
lentamente davanti a
Curtain I,
II e
III,
“
ho lavorato impasti di resine e fogli di alluminio come si
comporta un semplice sensitivo. Mi sono solo divertito a essere lì. Lì mentre
dallo stampo emergevano colori imprevisti, sfumature che non avevo mai usato e
idee che, soprattutto con i ‘Casted Painting’ e le loro tele di alluminio,
risultavano essere libere in quanto tali. Questa volta”,
conclude Drescher,
“
gli oggetti a me familiari
come le coperte o le tende, e le loro pieghe,
hanno deciso di scegliere d’essere quello che
io avevo visto in loro”
.Inutile notare dunque che, in
questa seconda personale, organizzata a distanza di oltre un anno, Drescher si
astragga rispetto a quel che ci aveva abituati a vedere. L’artista infatti è
maggiormente attratto dall’amalgama della materia e in apparenza più disposto a
utilizzare ogni forma della sua imprevedibilità.
Non a caso, infatti, in
galleria emerge il colore dei calchi, impartiti da precedenti modelli di
polistirolo. È così che analogie di tende in tessuto sottile e fibre di vetro
rosso, verde o grigio disturbano la superficie dei lavori. Qui i richiami vaghi
di una pittura che svanisce diventano segni forti, formule che fanno nettamente
spazio al loro supporto, come vero soggetto intransigente di qualsiasi fondato discorso
sull’opera d’arte.