Dedicare un anno della propria
vita a realizzare un set fotografico destinato a procreare, dopo svariati tentativi,
un’unica opera d’arte. Intenti stoici, se vogliamo, rarità del giorno d’oggi, anche
se – va detto – tutta la storia dell’arte racconta di artisti lentissimi e
riflessivi, concentrati sul dettaglio al limite della paranoia, da
Piero
della Francesca a
Leonardo da Vinci,
da
Gustav Klimt ad
Alberto Burri.
Su questo versante, però,
Sandy
Skoglund (Quincy,
Massachusetts, 1946; vive a New York) non è da meno. Le sue opere richiedono una
sostanziosa mole di lavoro – è la stessa artista ad ammettere di essersi mortalmente
annoiata durante la realizzazione di
Diamonds (1974), opera ironica con
attitudine da settimana enigmistica – e a niente servono ritocchi digitali o
schiere di assistenti: tutto viene plasmato con pazienza certosina e assemblato
per ricreare una realtà così altamente rassomigliante da risultare familiare. E
sinistra.
La mostra ripercorre i primi anni
della produzione di Skoglund, snodandosi lungo un percorso che si rivela il
piccolo glossario d’interpretazione per l’assurdità perfetta degli ultimi set: si
parte dalla catarsi del genere alimentare in modulo chiave di lettura per
composizioni a metà strada fra l’optical e il concettuale (la serie
Still
Life del 1978) e
si arriva alle
True Fiction del 1986, dove gli ultimi rigurgiti della stagione pop
americana si fanno sentire, ormai quasi assopiti, nell’acidità dei colori.
Iniziano ad apparire, uno per
volta, quei sottili segnali di manipolazione dell’immagine. La fetta di
prosciutto, così come i biscotti e le porzioni di torta, nel pieno della loro
connotazione reale e fisica, perdono credibilità compromettendosi con gli
sfondi geometrici che li accolgono. Con
Spoon e
Accesories, entrambe del 1976, inizia a
delinearsi l’attitudine di Skoglund a sfide più concrete e problematiche:
compare la figura umana, partecipe e per nulla toccata dagli elementi
stranianti che la circondano. Sono gli uomini e le donne che non si lasceranno
scomporre da verosimili gatti verdi, pesci volanti, commensali mutanti (ancora
una volta con una particolare predilezione per il cibo, dai pop corn
all’americanissimo bacon).
Uomini in cui pare vivere un
istinto di superiorità nei confronti di quella natura che prova a imporsi, che
invade, sempre sotto forma animale, spiagge e strade, che si manifesta con
colori talvolta sgargianti, talvolta luttuosi.
Alla complessità di queste
presenze, Skoglund pare affidare un compito illuminante – e forse per questo
predilige il lavoro fotografico all’elaborazione digitale -, un linguaggio che
si discosta dalla nicchia esclusivista e intellettuale artistica, appropriandosi
di una dimensione immaginifica riprodotta
on stage e per questo, forse, più
intimistica e magnetica.