Non il semplice
ritratto di
un artista, ma una panoramica su un impero e su una
Weltanschauung che, sull’orlo
dell’abisso, espressero il meglio di sé.
Schiele e il suo tempo racconta
l’ultimo giro di valzer dell’Aquila bicipite, partendo da una Vienna profumata
di caffé e dolci, i membri della Secessione immortalati nel Palazzo appena
affrescato con il
Fregio di Beethoven.
È qui che, nel 1906, piomba il figlio (orfano) di un
capostazione di provincia:
Egon Schiele (Tulln an der Donau, 1890 – Vienna, 1918).
Scavezzacollo, pluribocciato, ma subito ammesso all’Accademia di Belle Arti,
donde esce sbattendo la porta tre anni dopo. Da quel momento la sua prolifica
carriera decolla. Non cammino di un genio isolato, ma contributo a una temperie
con cui è in fertile relazione.
Questa la chiave di una mostra che, a un giudizio
sbrigativo, potrebbe deludere per l’esiguo numero di dipinti della star. Pochi
i quadri (ma i capolavori non mancano), qualcuno in più i disegni, selezionati
da un
corpus grafico di quasi 3mila pezzi. Accanto, opere di
Klimt,
Kokoschka,
Moser e di
Gerstl,
Finstauer,
Egger-Lienz,
Boeckl,
Kolig. Un percorso esemplificativo e
didascalico, dalla grafica Jugendstil. Fondamentali le indicazioni inerenti la
“colonna sonora” delle sale, dal “solito” Strauss jr al titanico Mahler.
I curatori tengono in equilibrio artista e personaggio,
sintetizzandone il carattere sfaccettato, specchio dei tumulti epocali e di un
ductus
spigoloso,
tagliente, drammatizzato dal segno nero.
Egon il mistico, che ne
Gli eremiti si effigia vicino al più vecchio
Klimt, cui agli esordi aveva rubato il fondo oro e le decorazioni. Rabdomante
degli -ismi che in quegli anni prendevano (o meglio perdevano) forma, Schiele
esplode in senso espressionista. Ma come non ricordare i
pattern di
Klee di fronte a piccole città e
periferie ritmate dal rosso? O come non ammirare la ginnastica cubista della
Madre
cieca?
Egon perennemente travolto da febbrile esaltazione,
ossessionato da un’immagine di sé dove strisciano segni d’un “mal di vivere”,
introiezione del
Disagio della civiltà, per dirla con un altro “rivoluzionario” operante
proprio in quegli anni a Vienna, Sigmund Freud.
Egon il morboso, che ritrae ripetutamente la sorellina Gertrude.
Egon lo scandaloso, arrestato per presunta (e infondata) seduzione di
minorenne, esperienza narrata nel
Diario dal carcere appena ristampato da Skira
(editore pure del catalogo), di cui la postfazione di Federica Armiraglio
evidenzia la sospetta manipolazione da parte dell’amico-pigmalione Arthur
Roessler.
Egon e le donne: contorte da un tormentato erotismo,
saltuariamente oggetti di una pornografia ben remunerata da viziosi
committenti. Donne reali, come la giovane moglie Edith, che lo precede di pochi
giorni nella tomba, anch’ella vittima della febbre spagnola, calamità coeva
alla Prima guerra mondiale. “
Inutile strage” in cui Schiele, tutto sommato,
non se l’era cavata male, arruolato come disegnatore.
“
Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo,
la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute“: il leitmotiv della
Cripta
dei Cappuccini di
Joseph Roth, capolavoro sulla
Finis Austriae. Egon il terribile l’aveva
perfettamente intuito.