Vi è una visione ciclica
dell’esistere nelle opere di
Tadashi Moriyama (Tokyo, 1979; vive a New York).
La città è il nucleo magmatico intorno al quale tutto gira: gli edifici si
moltiplicano e i quartieri si espandono mentre i grattacieli s’innalzano, in
una sorta di ripetizione compulsiva e modulare destinata a estinguersi in modo
catastrofico.
Vi è qualcosa di apocalittico e
paradossale. Un mondo popolato da uomini comandati da tentacoli meccanici (ricordate
il videoclip
Do the evolution dei Pearl Jam firmato
Todd McFarlane?) che a loro volta attraversano
codici a barre, per poi sgorgare come fiumi da quegli infiniti alveari che sono
finestre entro le quali, si presuppone, abitino gli uomini all’inizio del
cerchio. Un cane che si morde la coda.
È la
Ying Yang Town che si apre e si mostra, perfetta
nella sua circolarità, nella veste complementare ed equilibrata che le spetta:
laddove le costruzioni crescono in altezza corrispondono speculari palazzi
sbriciolati e presenze umane che sono tramutate negli elementi inquinanti il
paesaggio, figure sconnesse e incomplete, guidate dalle tubolari connessioni di
un iPhone. L’ordine cosmico delle cose ha perso la sua valenza, così come i
corpi celesti hanno perso la propria luce (
Solar and Lunar Spectra, 2009): è la fine del mondo e
sembra che la resa dei conti sia già iniziata.
I rimandi al passato sono
eloquenti: se da una parte l’arte fiamminga è chiamata in causa nell’intreccio
confuso e sincopato delle figure e nell’uso di un tratto incisivo e pulito (si
pensi alla
Torre di Babele di
Bruegel o ai trittici di
Bosch), dall’altra parte è evidente
come le leggi del contrappasso dantesche abbiano sortito il loro effetto, come
in
Total Amnesiac, dove uomini sommersi e incapaci di mettersi in salvo dalla metropoli paiono
ripescati da qualche girone infernale.
Da considerare poi, in risposta
alle iniziative attuali e in vista della leggera assonanza con i recenti
interventi urbani di
Blu, l’intenzionalità di denunciare il sistema sociale che governa e non
rispetta l’identità del singolo individuo.
In ognuna delle sue opere,
Moriyama ricorda che dall’evoluzione non si scappa. I nuovi mezzi digitali sono
visti come l’arma di distruzione di massa della nostra era, ma sono, allo
stesso modo, indice dell’abilità dell’uomo di fare e disfare a proprio
piacimento.
Quest’ultimo aspetto va
interpretato come il solo risvolto positivo nella progressione dell’intelletto,
perché se da una parte il protagonista di questi racconti è pur sempre un
manichino incravattato succube del suo tempo, dall’altra va notato che
l’artista non dimentica mai una scenografia, che sia un paesaggio
rinascimentale (
Yellow, 2009), uno skyline notturno (
Blue, 2009) o una campagna desolata (
Red, 2009).
Come a farci presente che sì,
tutto cambia, ma non ogni cosa è perduta.