Una teoria di zucchetti chiariva senza alcun’ombra di dubbio quale fosse l’oggetto della mostra inaugurata a metà ottobre a Palazzo Reale. Qualche moderata polemica c’è stata, ma non degna di particolare cronaca, anche perché il “temuto” dispiegamento di misure di sicurezza non si è rivelato tale, mentre sulla scelta di Noa -che si è esibita in concerto la sera del vernissage- di farsi accompagnare dall’orchestra sinfonica Israeli Defence Force è altrettanto degna di irrilevanza.
Sicuramente alcuni dati iniziali hanno contribuito a suscitare una manciata di quesiti, in primis la scelta di intitolare Israele una mostra che comprende un arco di tempo che inizia col XX secolo, mentre di primo acchito ci si poteva aspettare la data del 1948. Ma le questioni di geopolitica porterebbero troppo lontano, così come i dubbi relativi alla definizione che Amnon Barzel -fondatore del Pecci e suo direttore dal 1986 al 1993- fornisce del suo Paese: “Cuneo culturale occidentale inserito nello spazio geopolitico del Mediterraneo […]”. Metafora che avrebbe necessitato di una maggiore esplicitazione e forse di una simbologia meno tranchante.
Venendo alla mostra strictu sensu, la scelta curatoriale è curiosa, poiché si apre con la contemporaneità per poi risalire il crinale della storia (dell’arte). S’inizia con un’installazione ad effetto, opera di Menashe Kadishman. Per entrare fisicamente in mostra, il visitatore è “costretto” a calpestare decine di teste in ferro accatastate a terra, con un gesto che non lascia indifferenti. Fra i lavori più rilevanti, la porzione di spazio dedicato a Michal Rovner, che propone un piccolo nucleo di opere che sintetizzano magistralmente la difficoltà di leggere la situazione mediorientale, visto che giocano con il continuo disorientamento della percezione e dunque della comprensione di quanto si sta osservando.
Fra i nomi più noti nella nostra penisola, anche Gal Weinstein, la cui installazione Valley 2 trasforma in moquette una visione aerea del suolo, eloquente tentativo di addomesticazione di un territorio che, a distanza di un secolo, è tutt’altro che pacificato. Altrettanto celebre lo scatto di Adi Nes, che ricostruisce la Cena neotestamentaria utilizzando, al posto di Cristo e dei suoi apostoli, giovani militari di Tzahal. Se qualcuno temeva l’obliterazione della “questione palestinese”, si è inevitabilmente sbagliato. Poiché si tratta di una mostra dedicata all’arte israeliana in primo luogo, e poi perché tale questione emerge comunque in alcuni lavori, come in uno scatto di Miki Kratsman, che esibisce la mortifera monumentalità del tristemente celebre muro in costruzione sugli incerti confini tra Israele e Stato palestinese.
Da qui in poi il percorso a ritroso diviene incalzante. In funzione di icona dell’intero progetto, la “locandina” del V Congresso sionista del 1901, disegnata da Ephraim Moses Lilien, oppure i vasi riccamente decorati che, a uno sguardo attento, risultano essere ricavati da involucri di mortaio. Ancora dall’Accademia Bezalel proviene una ceramica che simboleggia in maniera ancor più stringente la difficile situazione dell’area: si tratta di un gruppo di formelle che raffigurano il sacrificio di Isacco, episodio biblico che ha ancora molto da insegnare. Ma pure la struttura urbanistica benthamiana di Nahalal, fotografata da Zoltan Kruger nel 1945, silenziosamente parla del sentimento di accerchiamento che talora può sopraffare gli esseri umani, al punto da imprigionarsi con le proprie mani.
Nel frattempo scorre l’arte del XX secolo, dal razionalismo architettonico all’astrattismo, dalla figurazione vernacolare all’informale. Perché Israele è uno Stato al pari degli altri. Con la propria tragica storia e il suo sviluppo. E la sua storia dell’arte, peculiare ma inserita in un andamento che, ci sia permesso un accento benaugurante, non erige muri. Siano essi fatti di cemento o di ideologie.
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