Un silenzio pesante, plumbeo, accoglie lo spettatore all’ingresso in galleria. La comunicazione non è solo assente, ma addirittura inesistente. Anonimi umanoidi campeggiano su tele di grandi dimensioni; grigi, vuoti, senza volto. Da una parte, otto tavolette fanno da contrappeso e da chiave di lettura a questo insostenibile mutismo.
Strizzando l’occhio al collage dada berlinese,
Max Neumann (Saarbruecken, 1949) dedica le sue opere di piccolo formato alla critica situazione di censura della libertà d’espressione nei Paesi asiatici. Pagine di quotidiani cinesi, visibili sui lati dei quadri, si ricoprono di rosso, per ospitare nere silhouette antropomorfe, dentro cui vivono nell’immobilità scene di vita quotidiana dei Paesi di appartenenza dei fogli stampati. Il messaggio è chiaro: l’uomo, senza possibilità di dichiarare il proprio pensiero, diventa invisibile e inutile. Ma, ancora, sono le persone a fare da specchio del proprio tempo, è il pensiero della gente a trasmettere la storia di una nazione e di un’epoca.
Allora cosa succederebbe se ci venissero tolte le parole, se non potessimo più esprimerci? La risposta a questo grave e greve quesito viene dalle grandi tele che occupano le candide pareti della galleria. La scelta dell’artista è subito chiara: nessuna delle opere ha titolo.
L’umanità è finita, ridotta a una sagoma monocroma, svuotata di ogni particolarità o individualità. Come automi, gli esseri che popolano i quadri sono ciechi, muti, impermeabili a ogni stimolo esterno. Sono contornati da mensole e scaffali vuoti, inquietanti, scuri, opprimenti. Leggono giornali privi di qualsiasi parola, freschi di stampa, bianchi e intonsi. “Niente nuove, buone nuove”, si dice, ma non in questo caso. L’unico essere incuriosito da questo contemporaneo sonno della ragione che genera mostri è un latteo levriero. Tenuto al guinzaglio da un padrone irriconoscibile fra tanti, insospettito dal vuoto dell’ambiente circostante, il cane è l’unico essere di cui sembrerebbero sopravvivere l’arguzia e l’ingegno, scomparsi invece da colui che dovrebbe essere l’ammaestratore.
La tavolozza scelta per quest’infausta rappresentazione è di per sé emblematica: nero, grigio, bianco sporco, beige. Tutti i colori sono neutri e monocromi, privando anche la pittura della forza dell’espressività cromatica; ogni tanto, un particolare rosso squarcia la monotonia, ma l’effetto non è altro che l’accentuazione dello smarrimento del portatore della tinta purpurea.
Uno scenario apocalittico, dunque, quello che vede l’uomo senza favella e senza coscienza. Ma la speranza arriva da Neumann stesso:
“Dall’assenza di connotati non definiti deriva una maggiore intensità e universalità. Gli individui dei miei quadri, pur non avendo gli occhi, guardano chi li osserva”.