In questi tempi d’oro per artisti come
Sterling Ruby, in cui il minimalismo viene riscoperto e arricchito, sporcato di riferimenti sottoculturali, un titolo come
Riflessioni geometriche può evocare le sperimentazioni linguistiche degli anni ’60 e magari farne immaginare una reinterpretazione in questa chiave da giovane artista postmoderno.
Nessuno degli autori esposti da Galica arriva ai 35 anni, ma l’approccio ai linguaggi dell’arte, in particolare a quello geometrico, è di tutt’altra natura.
Non mancano le citazioni e i tributi a grandi come
Richard Serra (
Philip Hausmeier,
Black Cabinet, 2008) e
Alberto Burri (
Francesco Candeloro,
Memorie – Gibellina (Omaggio a Burri), 2008). Ma, all’evidenza sensuale e al fascino per i materiali, si accompagna quasi sempre un riferimento retorico alla memoria, un recupero di figure e figurazioni che, se ricorrono alla forma geometrica, lo fanno per stilizzazione piuttosto che per monumentalità (
Vincent Lamouroux,
Chile, 2005).
Riflessioni non va letto nella sua accezione più analitica (almeno per quanto riguarda la sua relazione con
geometriche), bensì letterale: si tratta spesso di superfici riflettenti, giochi ottici e sensuali (Francesco Candeloro,
Window – New York, 2008). Il fervore concettuale degli anni ’70 è lontano, ma anche la sintesi espressiva geometrico/politica di Ruby. In sostanza, le opere in mostra non attaccano il linguaggio.
La sinergia retorica tra opera e titolo, e i riferimenti al vissuto personale degli artisti (
Marco di Giovanni,
Ritratto del padre, 2008) sono un altro punto di divergenza dalla sperimentazione puramente linguistica del
Senza titolo anni ’60.
Biquo, l’installazione riflettente e site specific di Di Giovanni, e la relativa performance, sono un esempio di come l’intervento dell’artista nello spazio sia volto a una giocosa complicità con l’opera e a una interazione emotiva con il pubblico, piuttosto che a stravolgere gerarchie strutturali della percezione artistica.
Un altro esempio sono le scritte in vinile in
TwaTW di Lamoroux, che evocano quelle di
Lawrence Weiner. Ma, mentre l’artista californiano richiamava materiali e sculture assenti dallo spazio con le sue parole, quelle del francese sono descrizioni di processi fisici, e la disposizione a raggiera è un invito a capovolgere fisicamente la propria testa.
Sterling Ruby o l’arte degli anni ’60 e ’70 non sono necessariamente l’arte definitiva, né l’approccio degli artisti in mostra tradisce alcun manifesto programmatico, ma il cappello teorico comune sotto il quale sono stati messi in quest’occasione sembra un po’ stretto e forzato, visti i territori molto diversi che attraversano.
Nonostante il titolo della mostra evochi freddi esperimenti combinatori, il curatore Walter Guadagnini le ha dato un carattere molto più emotivo e ludico. O, più semplicemente, ha sbagliato il titolo.